Vae victis!. Annie Vivanti

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Vae victis! - Annie Vivanti

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non so; ne hanno fatto qualche cosa....» rispose incerta Chérie. «Non ho capito bene. «E' stata restituita.... o ripulita, o che so io».

      A mezzogiorno la buona Madame Guillaume trovò un facchino che caricò i bagagli su una carretta a mano e li trasportò alla stazione del tram di Westende. E il tram portò le viaggiatrici, e il bagaglio, e Amour nella sua cesta, ad Ostenda, dove un altro facchino con un'altra carretta a mano prese bagagli e cesta e li portò alla stazione ferroviaria.

      Videro subito che Ostenda aveva un aspetto strano e nuovo. Le strade erano affollate, ma non dalla solita folla di languide demi-mondaines ed oziosi viveurs. No; le strade erano piene di gente affaccendata, di soldati a piedi e a cavallo; automobili, motociclette, carri e furgoni ingombravano le vie; e dietro a questi venivano contadini conducendo a mano lunghe file di cavalli e di muli.

      Per la Rue Albert, con rapido passo di marcia, scendeva un drappello di Guardie Civiche, coi loro cappotti lunghi e l'incongruo cappello duro da borghese fermato sotto il mento dalla striscerella di cuoio. Gruppi d'ufficiali arrivati ad Ostenda pochi giorni prima per le gare internazionali di tennis, fermi all'angolo dell'Avenue Léopold, parlavano tra di loro sommessi e concitati.

      «Ma che cos'hanno tutti?», chiese Mirella mentre traversavano in fretta la Place St. Joseph e il ponte, seguendo l'uomo coi bagagli, che già spariva dentro all'affollata stazione.

      Quasi in risposta alla sua domanda, due strilloni passarono correndo e annunciando con grida assordanti: «Supplément.... supplément de L'Indépendance.... Mobilisation générale…»

      «Ma, Frida!… vi sarà davvero la guerra?» esclamò con ansia Chérie volgendosi a interrogare con occhi inquieti l'arcigno profilo della governante.

      «Probabilmente,» rispose Frida; «tra la Russia e la Germania».

      «Ah, lontano da noi!» rise la giovine Chérie con una scrollatina di spalle; e corse avanti a salvare il prezioso cestello scosso e dondolato dalle rudi mani del facchino.

      «Senti Amour, come piagnucola!» susurrò Mirella, mentre, pigiate dalla folla, aspettavano il loro turno davanti allo sportello dei biglietti.

      «Guai a lui! Non deve farsi sentire», ammonì Chérie. «Ufficialmente, è la nostra merenda».

      Allora Mirella battè ripetutamente sullo scricchiolante canestro il piccolo pugno inguantato, mormorando: «Couche-toi, tais-toi, vilain scélérat!» E la merenda ufficiale si ricompose nella sua cesta e tacque.

      Fu un viaggio indescrivibile. Il treno era stipato fino alla soffocazione; pareva che tutta la gente nel mondo volesse andare a Bruxelles; ogni cinque minuti il loro treno si fermava per lasciarne passare altri, più stipati ancora, che passavano come fulmini roboanti lanciati verso la capitale.

      «Non ho mai veduto tanti soldati» disse Mirella. «Non credevo ce ne fossero tanti nel mondo!»

      Frida Rothenstein ebbe un sorrisetto sprezzante cogli angoli della bocca rivolti in giù. «Nel mio paese ce n'è qualcuno di più!» osservò.

      «Come? In Germania?… Ma certo non saranno così belli!» gridò Mirella, sporgendosi dal finestrino a salutare col fazzoletto, come tanti altri facevano, una compagnia di lancieri che passava al galoppo – lance in resta e pennacchi ondeggianti – sulla strada polverosa costeggiante la ferrovia.

      Frida li degnò appena d'uno sguardo. «Dovreste vedere i nostri Ulani,» disse. «Chissà,» soggiunse, «che un giorno non li vediate davvero!»

      Ma le ragazze non l'ascoltavano. Finalmente si arrivava a Bruxelles.

      Il viaggio da Ostenda era durato cinque ore invece di due. E per più di un'ora dovettero restar là, ferme, nel treno immobile nella stazione di Bruxelles.

      «Di questo passo non arriveremo mai a Liegi; e tanto meno a Bomal», disse Chérie sgomenta, mentre uno dietro l'altro i treni carichi di soldati l'asciavano la stazione prima di loro, andando verso l'Est. Qui si sarebbe detto che tutta la gente al mondo volesse fuggire da Bruxelles per correre alla frontiera orientale.

      Ma tutto ha una fine. E venne anche il momento in cui il loro treno si mosse, e uscì ansante e sbuffante dalla Gare du Nord verso Louvain e Tirlemont.

      Era quasi buio quando arrivarono a Liegi; allorchè lasciarono la Gare Guillemain, la morbida notte estiva avvolgeva già tutta la vallata nei suoi drappi tenebrosi.

      La piccola Mirella s'addormentò, col visino smunto e sudicio di fuliggine poggiato al braccio di Frida. Anche Chérie sonnecchiava nel suo cantuccio, sognando l'azzurro mare di Westende; ma gli occhi di Frida erano aperti e fissi nel buio, mentre il treno entrava ed usciva rombando dalle gallerie e passava fragoroso sui ponti seguendo la curva nero-luminosa del fiume Ourthe.

      Là, dove l'Ourthe incontra il suo minor fratello, l'Aisne, il treno rallentò, fremette, ebbe un lungo sibilo, e si fermò.

      «Bomal», annunzio il conduttore.

      «Eccoci giunti; su, Mirella, svegliati!» gridò Chérie guardando un istante dal finestrino e poi volgendosi a calcare sulla testolina arruffata e assonnata di Mirella il largo cappello a rose, mentre Frida radunava in fretta i libri, le racchette da tennis e gli ombrellini.

      «Eccolo! Eccolo!» e Chérie agitò la mano dalla portiera a salutare un'alta figura maschile che percorreva con volto ansioso la piattaforma. «Claudio! Claudio! siamo qui!»

      Claudio Brandès, un bell'uomo, d'una quindicina d'anni più vecchio della sorella Chérie, corse ad aprire lo sportello con un'esclamazione di sollievo. «Ah, sia lodato Iddio, siete qui», disse, alzando Mirella tra le braccia come se fosse una bambina piccola e portandosela sulla spalla. «E così? State bene?… Avete tutto? Andiamo!» E si avviò lungo la piattaforma a passi così rapidi che Chérie e Frida stentavano a tenergli dietro. «Oh, Mademoiselle», diss'egli volgendosi a Frida, «se avete lo scontrino dei bagagli, datelo a Fritz».

      «Oui, Monsieur le Docteur,» rispose Frida fermandosi a frugare nella borsetta. Indi si volse e si guardò intorno in cerca del domestico, Fritz, ch'ella non aveva ancora scorto.

      Fritz Hollaender («Hollaender di nome e Hollaender di nazionalità», com'egli soleva dire di sè ogni volta che faceva una conoscenza nuova) uscì improvviso dall'ombra e le fu davanti. Le prese di mano il foglietto senza rispondere al timido saluto di lei; nè parve accorgersi dello sguardo interrogante ch'ella gli fissava in volto. Senza una parola girò sui tacchi, e la sua massiccia figura scomparve tosto nell'androne dei bagagli.

      La piccola comitiva era già all'uscita della stazione ed il treno con un ultimo fischio serpeggiava via nel buio, allorchè Mirella d'improvviso alzò la faccia dalla spalla di suo padre e diede uno strillo. «Amour! Abbiamo dimenticato Amour!»

      Era vero. Amour rattrappito e disgustato nel suo canestro della merenda se ne viaggiava nella notte verso il verde cuore delle Ardenne.

      Vi fu un istante di muto sgomento, seguìto da molti vicendevoli rimproveri.

      «In fin de' conti, peggio per lui», disse Chérie che era stanca e aveva fame. «E' colpa sua. Perchè non ha abbaiato? Sapeva perfettamente che si scendeva».

      «Ma se gli abbiamo insegnato noi», singhiozzò Mirella indignata «a far finta d'essere una cosa da mangiare, quando si viaggia!»

      «Via, via, Mirella, non piangere,» disse suo padre. «Telegraferemo alla stazione di Marche che lo fermino e ce lo rispediscano. Vedrai che domani ce lo vedremo ricomparire

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