Strada senza uscita. Storia di due amori e un’amicizia. Роберто Борзеллино
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Come sempre accade nella vita l’occasione giusta capitò improvvisa e inaspettata: arrivò l’amore che, in un istante, travolse tutto e tutti in un istante. In poco tempo mi ritrovai a percorrere una strada completamente diversa: sposato e con un figlio in arrivo. Cercai di allontanarmi dal mondo nel quale avevo vissuto fino a quel momento e decisi di andarmene dall’Italia per provare una nuova esperienza di vita. Andai a vivere a San Pietroburgo, una bellissima città russa, costruita da Pietro il Grande sul fiume Neva, che racchiudeva in se un mix di stili architettonici diversi, prevalentemente europeo nel centro città e tipicamente russo nella vasta periferia. Mia moglie, russa, mi facilitò in questa scelta e mi proiettò in una realtà in cui mi sentivo, finalmente, a mio agio. Ebbi la fortuna di trovare subito lavoro come insegnante di lingua italiana in una scuola non lontano dal piccolo appartamento che, ormai, dividevamo in tre. Mi sentivo fortunato e felice, come non lo ero mai stato in vita mia perché adesso, nel tempo libero, potevo anche dedicarmi alla scrittura di tutto quello che desideravo: romanzi, piccole storie, poesie. Potevo scrivere e fantasticare su tutto quello che mi passava per la testa e così, tutta quella passione che avevo dentro uscì prepotentemente e si animò su centinaia di fogli di carta.
Purtroppo, come tutte le cose belle, anche quell’esperienza finì velocemente a causa dei burrascosi e quotidiani conflitti coniugali. Fu con la fine del mio matrimonio che mi decisi a tornare in Italia, lasciare quel piccolo appartamento e rinunciare alla mia vita di padre affettuoso. Nel mio ultimo ricordo mi vedevo con le valigie in mano, pronto a partire, mentre stringendo tra le braccia mio figlio ancora piccolo, gli sussurravo dolcemente nell’orecchio: “Il tuo papà ti ama e un giorno tornerà qui a riprenderti, questa è una promessa”. Purtroppo, non fui in grado di mantenere quella promessa e il ricordo di quella scena continuava a perseguitarmi nonostante il trascorrere del tempo. Forse la mia permanenza prolungata a Minsk era figlia proprio di quelle scelte sbagliate, di quei sensi di colpa che ancora mi portavo dentro.
Guardai l’orologio e vidi che il tempo era trascorso velocemente: ormai erano già le otto di mattina e non avevo ancora acceso il computer. Dovevo rimettermi subito a lavoro perché avevo ancora tante cose in sospeso da finire. Prima di immergermi nella routine quotidiana pensai di prendermi ancora qualche minuto per leggere le ultime notizie e aprire qualche e-mail. Peraltro, solo recentemente ero riuscito a ottenere un importante incarico editoriale ed era di vitale importanza che riuscissi a portare a termine quel lavoro nei tempi concordati. Dovevo occuparmi della correzione della bozza sulla nuova riforma pensionistica, un lavoro lungo e noioso che avrebbe preso tutte le mie energie. Avevo comunque un grosso problema perché dovevo consegnare, entro la fine del mese, le bozze corrette per andare in stampa, ma fino a quel momento mi ero occupato di tutt’altro e avevo trascurato quel lavoro. Mi restavano solo pochi giorni per rispettare quel contratto e, adesso, diventava veramente urgente concentrarsi solo su quello, senza altre distrazioni o divagazioni.
Ero consapevole che, se non avessi consegnato il file entro la data stabilita, non avrei ricevuto alcun compenso, nemmeno un piccolo rimborso spese. Avevo un assoluto bisogno di quei soldi perché dovevo ancora pagare l’affitto della stanza. Ero già in ritardo di tre mensilità ma per fortuna Olga (così si chiamava la donna che mi aveva dato in affitto una camera del suo appartamento), quando mi vedeva triste e sconsolato, cercava di tirarmi su di morale, ripetendomi, nel suo incerto italiano:” Roberto, non preoccuparti per l’affitto, sono sicura che alla fine tutto si risolverà per il meglio”. Desideravo farmi perdonare per tutti quei ritardi che, ormai, stavano diventando una cattiva abitudine e pensai di invitarla fuori a cena o di comprarle dei fiori, di quelli che lei amava tanto: le rose rosse.
Olga era una donna dolce e gentile, aveva grandi occhi a mandorla che tradivano le sue origini asiatiche. Era nata in Uzbekistan, un’ex repubblica che un tempo apparteneva alla vecchia Unione Sovietica, ma ci teneva a puntualizzare che la sua mamma aveva origini russe e che, per metà, anche lei si sentiva russa. Aveva ormai superato la quarantina, ma la sua bellezza non era ancora del tutto sfiorita: si vedeva che amava tenersi in forma e aveva il viso e le mani curate, l’aspetto sempre in ordine.
Una sera che eravamo rimasti soli in casa, dopo averla vista particolarmente affranta e sconsolata, le chiesi se avesse avuto desiderio di raccontarmi la sua storia familiare. Mi disse che era stata sposata con uno straniero per oltre venti anni, un egiziano che aveva lavorato a Minsk come professore universitario e con il quale aveva avuto tre figli. Le prime due figlie ormai erano già grandi, rispettivamente di diciotto e quattordici anni, mentre l’ultimo figlio, il maschio, aveva appena compiuto undici anni. Il marito l’aveva lasciata ed era andato via da casa due anni prima del mio arrivo: diceva di sentirsi stanco di quella vita familiare, della monotonia di una città che, dopo tanti anni, ancora non riusciva a capire. In realtà non aveva mai sopportato lo stile di vita occidentale ostentato, in tutti quegli anni, dalla bella moglie bielorussa e sempre più spesso le aveva ripetuto che non si sentiva amato e rispettato. Poi, all’improvviso, aveva deciso di tornarsene al Cairo e di lavorare come consulente esterno per il Museo egizio, ma portò via con sé le due figlie più” grandi.
Olga, alla scoperta del rapimento delle figlie, dopo lo shock iniziale, aveva fatto di tutto per tentare di fermare il marito, ma nemmeno la denuncia alla polizia aveva sortito alcun effetto; alla fine si era dovuta arrendere, impotente di fronte ad una situazione che si era dimostrata più” grande e più forte di lei. Bastava parlarci insieme pochi minuti per capire che era una donna con una forte personalità. Olga mi confidò, candidamente, che si sentiva ancora fortunata ad avere con se’ il piccolo figlio maschio e avrebbe dedicato tutto il suo tempo e le sue energie per farlo crescere nello stile occidentale.
Il piccolo Amir aveva un viso rotondo e gioviale, con due occhi grandi, neri ed espressivi, un’energia infinita e un insaziabile appetito; spesso lo avevo sentito ripetere una curiosa frase in russo quando, rivolgendosi a Olga, le diceva: “Мама, я хочу есть” (Mamma voglio mangiare).
Olga, con pazienza, cercava di esaudire tutti i desideri del suo piccolo principe preparandogli ogni sorta di prelibatezza e, la sera, nonostante la stanchezza per il lungo e duro lavoro, si prodigava per aiutarlo a finire i compiti da portare il giorno dopo a scuola. Quando la mamma era assente mi divertivo a guardare Amir scorrazzare per casa insieme ai suoi amici del quartiere; si divertivano tutto il tempo tra televisione, playstation e giochi di lotta, dimenticandosi completamente di dedicarsi allo studio e mettendo a soqquadro tutto l’appartamento. Il piccolo Amir aveva una grande passione per la musica e dopo la scuola percorreva alcuni chilometri a piedi per arrivare al conservatorio, che frequentava tre volte la settimana, per perfezionare il suo talento musicale.
La mamma, con grandi sacrifici, era riuscita a comprargli un pianoforte usato, con cui Amir si divertiva a inventare nuove melodie. Quando lo sentiva suonare al pianoforte Olga piangeva di nascosto, ma erano lacrime di gioia perché, in quelle occasioni, vedeva il figlio felice. Mi faceva una grande tenerezza questo “piccolo principe”, (tale era l’origine araba del suo nome Amir), forse perché mi ricordava mio figlio che ormai non vedevo più da tanti anni. Per lui ero diventato come un padre e qualche volta mi chiedeva di uscire insieme in strada per giocare a palle di neve o per farsi spingere con lo slittino giù dalle piccole collinette di ghiaccio che, nella notte, si erano formate all’interno del cortile.
Mentre riflettevo sulla forza d’animo della mia padrona di casa, mi decisi ad aprire la posta elettronica e il mio sguardo fu immediatamente catturato dall’intestazione di un’e-mail che, nell’oggetto, riportava un nome e una stringata frase, “Massimo, il tuo vecchio amico”. Rimasi completamente sorpreso, ma quella frase non mi lasciava alcun dubbio – era proprio Massimo, il mio vecchio compagno di liceo. Quel nome mi riportava con la mente al passato, ai tempi in cui tutto sembrava possibile, quando, a sedici anni, pensavamo di avere il mondo e il futuro nelle nostre mani. Era trascorso tanto tempo dall’ultima volta che avevo avuto sue notizie e adesso mi chiedevo