Strada senza uscita. Storia di due amori e un’amicizia. Роберто Борзеллино
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Immaginavo come sarebbe stato “figo” arrivare a scuola a bordo di una fiammante e nuova spider Alfa Romeo, tutta rossa, decappottabile e quale invidia avrebbero provato i miei compagni di classe nel sentire il rombo del motore salire di giri, sempre più forte, un rumore quasi assordante. Ma soddisfazione ancora più grande sarebbe stata vedere le ragazze più” carine della scuola fare la fila e mostrarsi pronte a tutto pur di poter salire su quell’auto e correre in giro per la città, per sentire l’ebbrezza della velocità e il vento nei capelli. Purtroppo per me quelli erano solo i pensieri di un adolescente che, intanto, continuava ad andare a scuola a piedi, mentre in quegli anni ’80 un semplice motorino, anche usato, avrebbe potuto fare la differenza tra uno “sfigato” e uno che “ci sapeva fare”.
Quei sogni, quelle illusioni, duravano solo il tempo di quel breve tragitto e poi avrebbe avuto inizio, come sempre, il tormento di quella giornata. Così come ogni giorno, anche quel lunedì mattina bisognava trascorrere cinque lunghe ore chiuso in una grande stanza al piano terra, insieme ad altri tredici disperati che, come me, avevano la sensazione di essere come dei prigionieri in attesa della libertà. Con passi sempre più lenti ormai mi avvicinavo inesorabilmente all’entrata della scuola; adesso potevo distinguere perfettamente il palazzone color rosso porpora mentre con lo sguardo controllavo gli altri studenti che, come me, svogliatamente, arrivavano alla spicciolata formando e dividendosi in piccoli gruppi di tre o quattro elementi.
Qualcuno fumava nervosamente, altri sembravano ancora assonnati, qualcun altro parlava ad alta voce e cercava di vantarsi della sua nuova conquista del sabato sera, avvenuta come sempre in discoteca, quasi che avesse piacere affinché tutti gli altri, oltre al suo piccolo gruppetto, potessero ascoltare e condividerne i particolari più piccanti.
Intanto osservavo se tra quei ragazzi ci fosse qualche volto noto, un compagno o compagna di classe con la quale fare due chiacchiere prima dell’inizio delle lezioni, ma non riuscii a scorgerne nessuno e sembravo, stranamente, essere arrivato in anticipo. Quel giorno dovetti restare ancora da solo per qualche minuto ed ebbi il tempo per continuare a fantasticare con la mente: mi chiedevo se non sarebbe stato un comportamento “rivoluzionario” se, quel lunedì mattina, tutti noi adolescenti, avessimo proclamato uno sciopero improvviso, magari adducendo come motivo l’insalubrità di quelle grandi stanze umide e fredde in cui eravamo costretti a stare per lunghe ore durante la giornata e dove, ormai sempre più spesso, era possibile notare anche i calcinacci che pendevano dal soffitto.
Mi chiedevo quand’era stata l’ultima volta che avevano provato a dare una sistemata o, almeno, una mano di colore.
Il povero bidello Gianni faceva quello che poteva, ma oltre alle pulizie generali s’interessava solo di cambiare qualche lampadina o sostituire le serrature delle porte delle nostre aule, che qualche buontempone aveva provato a divellere. Quel Gianni era un tipo davvero strano, aveva un aspetto tarchiato e corpulento e la statura più bassa della media, ma con delle grandi mani, ruvide e callose. Era evidente la sua origine contadina e, quando aveva del tempo libero, si divertiva a coltivare il piccolo giardino che si stendeva tutt’intorno al perimetro della scuola. Qualche volta, tra una lezione e l’altra, mi affacciavo dalla finestra al piano terra e mi divertivo a fare ambigui commenti sul tipo di ortaggi che avrebbe potuto coltivare durante la giornata.
Comunque Gianni era un tipo simpatico e non reagiva mai in modo sgarbato o violento ai nostri scherzi anzi, a volte ci invitava a prendere un caffè che era solito preparare nel suo stanzino, quello delle scope e dei detersivi. Con il tempo aveva saputo organizzarsi bene portandosi da casa un piccolo fornello da campeggio al quale aveva collegato una minuscola bombola da gas e con quello si preparava spesso da mangiare; non era raro respirare l’odore della carne arrostita che, dopo aver attraversato tutto il corridoio, giungeva in tutte le aule, compresa la nostra. All’ora di pranzo quel profumo diventava una vera tortura, mentre dovevamo aspettare ancora qualche ora prima di poter tornare a casa per mangiare. Dal preside all’ultimo dei professori tutti chiudevano un occhio per quei comportamenti poco “ortodossi”, ma Gianni sapeva farsi perdonare, perché era sempre gentile e disponibile con tutti.
Mi riportò alla realtà il crescente brusio delle voci dei ragazzi che nel frattempo avevano quasi riempito tutto l’atrio dell’entrata della scuola; decisi di sedermi sul piccolo muretto che mi avrebbe allontanato di qualche metro da quella “mandria”, che poteva dirsi mansueta solo all’apparenza. Adesso ero seduto in un posto considerato strategico ed ero sicuro che nessun mio compagno di classe, entrando, avrebbe potuto non vedermi. Anche da seduto potevo vedere quello strano cancello di ferro, rosso e nero, che per me segnava il confine tra la libertà e l’agonia di una giornata da trascorrere ad ascoltare lezioni spesso inutili. Tutti quei professori, messi insieme, non erano in grado di dirti o di spiegarti chi eri, in quale direzione andare o di orientarti nelle scelte future della vita. Tra le altre cose dovevamo imparare anche il latino, una lingua considerata morta, ed io riflettevo “ma se è una lingua morta ci sarà stato un motivo e perché resuscitarla proprio con noi, non sarebbe stato meglio insegnare un’altra lingua, magari l’inglese, che con il francese ci avrebbe fornito le basi magari per trovare un lavoro migliore e consentirci di fare delle esperienze all’estero?”.
Era evidente che non potevo immaginare la scuola se non come una gabbia, una fabbrica di nozioni, un posto tetro e ormai obsoleto, dove nessuno si curava delle idee di noi giovani che, in un futuro non lontano, saremmo stati la spina dorsale sulla quale si sarebbe poggiata la nostra Nazione.
Cosa fare delle nostre aspirazioni? Come assecondare la nostra voglia di conoscenza?
Eravamo una generazione che non aveva internet ne telefonini e spesso le nostre idee restavano confinate nei cassetti della nostra mente. Di quei cinque anni trascorsi al liceo non ricordavo neppure un episodio insolito accaduto come forma di protesta nei confronti di quel sistema scolastico.
Ricordavo solo che quel lunedì mattina cercavo una via d’uscita, forte era la tentazione di voltarsi e di tornare indietro.
Sì, ma per andare dove?
Certamente non a casa dove avrei trovato mia madre già pronta a minacciare chissà quale esemplare punizione al ritorno di mio padre dal lavoro.
Nemmeno volevo trascorrere l’intera mattinata da solo, seduto su di una panchina al lungomare a dividere il mio panino con i gabbiani. Alla fine di quel mio girovagare nella mente mi resi conto che, probabilmente, entrare a scuola era la scelta più saggia, il male minore.
Guardai l’orologio e solo pochi minuti mi separavano dal suono di quella “maledetta” campanella: l’avevo sempre immaginata come una “campana a morto” che salutava il carro funebre al termine della funzione sacra. Invece della campanella giunse al mio orecchio il suono di una voce familiare provenire dalle mie spalle, era una voce dolce e gentile che avrei riconosciuta ad occhi chiusi, tra mille altre. “Ciao Roberto, sono felice di vederti, allora ci siamo proprio tutti questa mattina?”. Mi voltai lentamente cercando di incrociare subito il suo sguardo e, in quel momento, la luce di due occhi grandi e azzurri illuminò subito il mio viso, così come un faro nella notte buia. Era Marina, la mia compagna di classe che mi veniva incontro sorridendo. Non aspettavo altro e noncurante di essere rimproverato, il mio sguardo cadde inesorabilmente sulla sua camicetta bianca sbottonata al punto che potevo quasi intravvedere il suo reggiseno. Le risposi con un sorriso mentre a stento riuscii a dirle “ciao”. La osservavo ormai da quasi cinque anni, sempre seduta in prima fila, nel banco