Se Non Farai Del Sogno Il Tuo Padrone…. Stephen Goldin
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“E perché no?”
“Per lo stesso motivo per cui non ci è permesso ferire o uccidere nessuno, suppongo. Anche nei Sogni normali nessuno completa mai l’atto. Ci si può avvicinare molte volte ma succede sempre qualcosa che ti impedisce di terminare l’azione.”
Scosse la testa. “Forse è il metodo che ha il corpo per eliminare la tensione – la Commissione Comunicazioni però ci ha imposto regole piuttosto severe. Assolutamente senza consumare, così hanno detto. Se solo cercassimo di fare una cosa del genere ci starebbero talmente addosso che la storia di Spiegelman al paragone diventerebbe un tè con le amiche.”
“E allora che cosa si fa?”
“Perlopiù roba di routine. Uno a uno, fantasie di harem, orge. Io mi sono tenuto fuori dalla roba più eccitante, i trip sadomaso, la disciplina, scat e così via. Una volta ho provato un Sogno con un gay, un uomo, ma è stato orribile; non mi ci trovavo, il capo mi ha detto di limitarmi alle cose normali. Una volta ho fatto delle scene lesbiche ma è stata una cosa diversa. Le fantasie lesbiche sono esclusivamente per gli uomini, quel che posso dire è che la maggior parte dei gay non sono interessati. E’ curioso però che…”
Rondel lo interruppe. “Usciamo qui per Laurel Canyon.”
Nei minuti successivi Rondel si impegnò a dare indicazioni a Wayne guidandolo per le strade che portavano a casa sua e la conversazione languì. Quando l’automobile giunse di fronte alla destinazione era troppo tardi per riprendere il dialogo sulla precedente occupazione di Wayne; cosa di cui fu contento.
“Entra che ti prendo il libro” lo invitò Rondel.
“Me lo puoi dare pure domani alla riunione.”
“Ci vuole solo un minuto. Accomodati.”
Riluttante, Wayne scese dalla macchina e seguì Rondel fino a casa.
L’abitazione era straordinariamente insignificante; un modesto edificio di un piano, rannicchiato timidamente lontano dalla via. Il giardinetto all’entrata era circondato da una siepe continua di media altezza, contorta e ripiegata perché usata da molti anni dai bambini del quartiere. In molti punti il prato arrivava alle caviglie, in altri era quasi nudo. Forse Rondel aveva altri pregi, ma sicuramente non eccelleva nel giardinaggio.
Sul portoncino d’ingresso era accesa una fioca lampadina nuda. Anche nella luce tenue Wayne riuscì a notare, salendo le scalette del portico, che la vernice si staccava dalle trascurate pareti in legno, e che il frontale della finestra davanti era consumato e rappezzato in diversi punti. Squallido, pensò schifato. Quest’uomo è una delle star della nostra professione e vive in queste condizioni. Perché?
Se era rimasto sbigottito dall’esterno della casa, l’interno lo strabiliò letteralmente. Mentre Rondel apriva la porta il naso di Wayne fu assalito dall’odore acre di lettiera per gatti non cambiata da settimane. Il pavimento era letteralmente cosparso di giornali e riviste; le librerie che riempivano le pareti erano costipate non solo di libri ma anche di piatti sporchi, bicchieri e altri oggetti assortiti poggiati lì in un momento frettoloso e mai spostati; i mobili erano vecchi e la tappezzeria in broccato era consunta e aperta a mostrare l’imbottitura in numerosi punti.
“Scusa il disordine” disse Rondel semi-consapevole, mentre camminava con cautela sulla sporcizia del pavimento. “Non ho molto tempo per fare le pulizie, e mia madre non ci riesce, quindi tutto si accumula…”
Wayne non fece commenti e seguì Rondel all’interno. Il suo disagio si faceva sempre più acuto ad ogni istante; avrebbe voluto non accettare l’invito dell’altro. Come aveva detto DeLong, doveva imparare a dire “no” un po’ più in fretta.
“Vince, sei tu?” chiamò una voce acuta dall’interno. “Grazie al Cielo ce l’hai fatta, mi sembrava che non dovessi mai arrivare.”
“Sì Mamma un attimo e sono da te.”
“C’è qualcuno con te? Sento che parli con qualcuno.”
“Sì Mamma. E’ Wayne Corrigan, un collega. Ti ho parlato di lui. Mi ha dato un passaggio fino a casa.” Si volse verso Wayne. “Scusami un istante, vado a vedere come sta. Torno subito.” Si diresse verso il fondo del corridoio e svanì lasciando Wayne da solo.
Qualcosa gli si strusciò su una gamba e lui uscì quasi di sé: in una casa come quella quale creatura poteva mai girare liberamente? Ma era solo un gatto, a pelo corto, grigio e bianco, con l’aria smunta e disordinata. Aveva qualcosa in bocca ma scappò via prima che Wayne potesse vedere cosa fosse. Guardandosi attorno, Wayne scoprì di essere diventato oggetto degli sguardi di diverse altre paia di occhi felini, celati in angoli bui della stanza disordinata.
Nella stanza accanto, Rondel e sua madre parlottavano tra loro, discutendo su quale potesse essere una parola più appropriata: Wayne non distingueva molto delle parole – la signora Rondel diceva qualcosa su “sconosciuti in casa” ma erano evidenti gli alti e bassi della conversazione. Era sempre a disagio nel trovarsi testimone di una qualche disputa familiare e la tentazione fu quella di voltarsi ed andarsene - ma non sarebbe stato cortese scappar via dopo aver accettato l’invito di Rondel di entrare. Doveva aspettare almeno il ritorno di Rondel per potersi accomiatare.
Più restava nella stanza, più lo squallore sembrava peggiorare. Wayne riuscì a notare palline di tessuto arrotolate tra le cartacce sul pavimento e gli sembrò di vedere un grosso scarafaggio scappare in un angolo e svanire sotto lo zoccolo della parete. I piatti, che gli ricordavano la porcellana di Limoges che la madre tanto amava, erano stati impilati a caso sulla libreria e contenevano ancora avanzi di cibo, alcuni dei quali iniziavano a formare la muffa. Accanto ad un piatto c’era una piccola opera di Steuben, una balena di cristallo con la coda arcuata in aria – ma la coda era incrinata e una pinna si era spezzata. Alla finestra c’erano tendine in merletto che però mostravano i segni di anni di unghiate di gatto. C’era una fila di piante morte e avvizzite sul davanzale, talmente rinseccolite che era impossibile capire che tipo di piante fossero state. Accanto alla porta che conduceva in cucina c’era una busta marrone da droghiere piena di immondizia, in cui Wayne riuscì a vedere lo scintillìo di vassoi di plastica usati, di quelli utilizzati per i pasti surgelati. Dalla cucina arrivavano vaghe zaffate di un odore a metà tra una fogna e una bara aperta.
Se debbo stare qui ancora per molto, pensò Wayne, mi sentirò male. Ma come si fa a vivere in questo modo?
Rondel sbirciò nella stanza. “Corrigan, ce l’hai un minuto? Vorrei presentarti mia madre.”
“Beh veramente dovrei proprio andare…”
“Ci vuole un minuto e comunque ti devo andare a cercare il libro. Vieni.”
Chiedendosi perché si lasciava intrappolare in impicci del genere, Wayne camminò gaiamente nel disordine cercando di evitare di calpestare un gatto o altro oggetto spiacevole tra i detriti del pavimento del soggiorno. Nel corridoio non c’erano cartacce ma questo rendeva visibili al passaggio i punti del pavimento in parquet in cui erano state spente sigarette. I mozziconi, gettati in un angolo, formavano una piccola piramide di filtri.
C’era una porta appena socchiusa che conduceva fuori dal corridoio. La stanza su cui si affacciava era di una semplicità cruda: pavimento in legno vuoto; un letto in ferro battuto a due piazze