Due. Dispari. Federico Montuschi
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L’ispettore alzò il sopracciglio sinistro, incrociò le braccia al petto e si volse lentamente verso di lui.
«Apparentemente sì. Ma r-ragioniamoci un attimo. Che motivo poteva avere un personaggio come Padre Juan per gettarsi dal t-terzo piano? Era un uomo stimato dalla comunità, sereno, per come lo conoscevo io. D’altronde, m-mi vien da dire, anche l’ipotesi che sia stato ucciso è difficilmente sostenibile: che nemici poteva avere una persona così? Lasciami c-chiamare la polizia per sentire se abbiano aperto un’indagine».
Lo Slavo quasi si stupì per la tranquillità con cui Castillo gli si era rivolto.
Solitamente, a fronte delle sue uscite scontate, l’ispettore reagiva con l’effetto cerino, infiammandosi rapidamente e, altrettanto rapidamente, spegnendosi.
Ma i giorni trascorsi a casa dovevano aver giovato alla sua tranquillità, o forse, più banalmente, non voleva iniziare la settimana con una discussione sterile.
Castillo estrasse il telefono dalla tasca laterale dell’impermeabile e compose il numero della centrale di polizia di San Josè.
Al terzo squillo rispose Herreros, un ex poliziotto della volante che qualche anno prima, a seguito di uno scontro a fuoco con un clan di narcotrafficanti, era rimasto paralizzato dalla vita in giù e ora deambulava in sedia a rotelle.
Anche lui di Burgos, e per questo fin da prima dell’ingresso in polizia stretto amico di Castillo, era un uomo di corporatura robusta e portava una folta barba nera, che alcuni dicevano fosse dettata dalla necessità di nascondere una profonda cicatrice da coltello, regalo di uno degli svariati scontri con la malavita centroamericana.
Non aveva famiglia e passava la maggior parte delle serate libere nelle birrerie della capitale a parlare con la gente che incontrava.
Era da sempre e da tutti conosciuto come un uomo buono, con occhi miti, sguardo burbero ma dolce, sempre puntato verso l’orizzonte, e la notizia del suo ferimento con conseguente paralisi aveva gettato i più nello sconforto.
Il posto di centralinista alla sede di polizia di San José gli era stato affidato in virtù della sua affabilità con la gente, che nonostante l’incidente era rimasta intatta.
E quel caso non fece eccezione.
«Polizia di San José, buongiorno. Come possiamo aiutarla?».
«Herreros c-ciao, sono Castillo. Come va?».
«Ciao Castillo! Che piacere sentirti, vecchio mio! Dimmi tutto».
«Chiamo perché vorrei s-sapere se qualcuno della volante sia passato in Calle del Tesoro questa m-mattina per il suicidio di P-padre Juan».
«Sento che piove, eh?».
Herreros sapeva di potersi permettersi quelle battute con l’amico, data la confidenza fra i due.
«Ho sentito anche io di Padre Juan, pover’anima... non so se qualcuno dei nostri sia intervenuto, lasciami verificare, ti richiamo io a breve».
«Ti ringrazio. A dopo, allora». «A dopo».
Castillo fece due passi avanti, scavalcando la chiazza di sangue sul marciapiede, e spinse con la punta delle dita il portone d’ingresso dello stabile che si aprì con un cigolio fastidioso.
Con un cenno del capo invitò lo Slavo a seguirlo.
Nell’androne del palazzo un neon traballante illuminava senza decisione le scale, che salivano sulla destra dell’ascensore.
Un foglio di carta appeso con lo scotch al muro e scritto con un pennarello rosso informava che l’ascensore era rotto.
Il gabbiotto della portineria, separato dal resto dell’androne da una sottile parete di vetro che si ergeva di fianco a una minuscola porta in legno, era desolatamente al buio.
Lo schienale mancante dell’unica sedia presente era il chiaro segno che, da tempo, nessuno dava il benvenuto ai condòmini da quello stanzino.
Castillo ne percepì il senso di abbandono, il disordine, il pesante spessore della polvere accumulata all’interno.
Passò oltre e si infilò per le scale esterne, seguito dallo Slavo e accompagnato dal ronzio del neon.
L’intenso odore di piscio sulle scale era rivoltante e l’ispettore si chiese come avesse potuto Padre Juan vivere per tanti anni in quel posto tanto sordido.
Salendo gli ultimi gradini a due a due, si ritrovò sul pianerottolo del terzo piano, quello dell’appartamento del prete, con le tempie pulsanti e una frequenza cardiaca tambureggiante.
«Tutto bene, ispettore?» chiese lo Slavo, guardandosi in giro alla ricerca di un interruttore per illuminare il corridoio.
«S-sì, più o meno» rispose Castillo, piegato sulle ginocchia alla ricerca di ossigeno.
Le giornate trascorse a letto non avevano certamente giovato ai suoi polmoni e si ripromise, per l’ennesima volta, di iniziare di lì a breve un programma di allenamento per recuperare almeno in parte la forma fisica perduta.
Lo Slavo, accesa la luce, esaminò tutte le porte del corridoio, leggendo il nome dell’inquilino sulla targhetta esposta, fino a che trovò quella giusta.
«Ci siamo, questa è la casa di Padre Juan» disse indicando una porta di color marrone scuro.
Castillo si limitò a un cenno d’assenso.
Lo Slavo estrasse dalla tasca anteriore dei suoi jeans slavati un passepartout di metallo, ma prima che potesse tentare di infilarlo nella serratura fu interrotto dalla voce tuonante dell’ispettore.
«P-Proviamo a suonare il campanello, prima di fare s-stupidaggini. Non abbiamo alcuna a-autorizzazione per entrare, e l’ultima cosa che voglio è essere accusato di effrazione nella casa di un morto. È chiaro?».
Gli occhi di Castillo sembravano due tizzoni di carbone pronti ad alimentare la fiamma del falò interno che gli si sprigionava nella pancia quando le persone cui voleva bene - e lo Slavo apparteneva a questa categoria - si perdevano in stupidaggini che non riusciva a concepire.
Sorpreso per la violenza del tono dell’ispettore, lo Slavo si congelò, con la chiave a pochi centimetri dalla serratura.
Con due passi sorprendentemente felini, considerato lo stato con cui aveva terminato la salita delle scalinate, Castillo si frappose fra lui e la porta.
« Freeze, flight or fight. Tu hai scelto freeze» sussurrò l’ispettore, accennando un sorriso che voleva smorzare la tensione che si era involontariamente venuta a creare.
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