Due. Dispari. Federico Montuschi

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Due. Dispari - Federico Montuschi

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uscire dalla bocca.

      In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dell’ispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.

      Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.

      

      

      Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, l’altra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.

      Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte all’altra.

      Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano a credere potesse essere naturale; aveva un sorriso solare baciato da una dentatura da pubblicità e due gemme verdi al posto degli occhi, chiara eredità cromosomica della madre.

      Era la maggiore e fisicamente la differenza fra le due era lampante; a ventidue anni era già una donna, con le rotondità del seno e dei glutei sempre in bella evidenza, nei vestiti stretti che amava indossare.

      Castillo sopportava non senza preoccupazioni quella situazione, per la poca fiducia che aprioristicamente nutriva nei confronti della nuova generazione, ma si sforzava di confortarsi pensando ai bei voti scolastici della figlia che, secondo i suoi insindacabili canoni, era una brava ragazza.

      In Carmen erano invece ancora presenti i tratti dell’adolescenza e a vent’anni, diversamente da buona parte delle sue coetanee, non aveva ancora terminato lo sviluppo fisico.

      I seni erano solo accennati, era di quasi dieci centimetri più bassa della sorella e pesava venti chili in meno.

      Sul suo viso, dai lineamenti aspri enfatizzati dalla magrezza forse eccessiva, risaltavano curiose lentiggini concentrate soprattutto sulle gote; i capelli lunghi e mossi, non curati, contribuivano a creare il personaggio alternativo che le piaceva interpretare fuori dalle mura domestiche, in particolare nelle occasioni in cui riusciva ad accodarsi a Mar e alla sua compagnia.

      «N-notte i-impegnativa, ragazze?» chiese Castillo, prima di sorseggiare il caffè nero bollente che, dopo i giorni d’influenza accompagnati da tristi tisane ristoratrici, gli sembrò più buono che mai.

      La signora Conchita scaldò dell’acqua e v’immerse due bustine di the, sapendo che avrebbe fatto bene agli stomaci ingarbugliati delle figlie.

      Il profumo dell’infuso pervase rapidamente la stanza e sembrò avere un effetto benefico immediato su Mar, che passò in pochi secondi dallo stato di catalessi nel quale si era presentata in cucina a quello di iperattività che tanta invidia provocava a Castillo, ormai lontano da quei ritmi che appartenevano al suo passato di brillante universitario.

      Le domande della figlia maggiore lo investirono senza preavviso.

      «Papà, torni al lavoro oggi? Hai voglia? Stai seguendo qualche caso? È successo qualcosa d’interessante in questi giorni? Hai visto come piove? Speriamo tu non debba parlare troppo! Mamma, questo the è buonissimo! Carmen, ti vuoi svegliare?» e così via.

      Carmen, stringendo fra le mani la tazza fumante preparata dalla madre, rimase nel suo stato catatonico.

      Pur incalzato dalle domande della figlia maggiore, l’ispettore Castillo abbassò la serranda del proprio ascolto e si estraniò dai successivi dieci minuti di conversazione - se di conversazione si poteva parlare, considerando che anche la signora Conchita in quelle situazioni preferiva rinunciare a intervenire nel flusso irrisolto di domande della figlia.

      I pensieri iniziarono poco a poco a fluirgli liberi.

      Si concentrò sui principali fatti di cronaca nera avvenuti durante il periodo passato a letto, sforzandosi di individuare quelli che potevano scaturire in nuovi lavori per lui e per lo Slavo.

      Aveva bisogno di impegnare la testa, dopo i giorni a letto, e percepì una piacevole carica di adrenalina montargli poco a poco dallo stomaco.

      Una raffica improvvisa di vento fece sbattere le ante della cucina.

      «S-signore mie… v-vado al l-lavoro. Splendida g-giornata, eh? Ci vediamo questa s-sera».

      S’infilò l’impermeabile verde, afferrò il primo ombrello che gli capitò a portata di mano e soffiò un bacio verso le sue donne, che ricambiarono il saluto, a parte Carmen, che rimase immobile con la tazza fra le mani.

      L’Alfa 159 attendeva Castillo dall’altra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: l’ispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.

      La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano l’effetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dall’intensità della pioggia.

      Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.

      Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di un’occasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.

      Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dall’auto, comprò un quotidiano all’angolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso l’ufficio, poco distante.

      Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.

      Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.

      Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.

      Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.

      Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.

      Optò allora per l’intervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.

      Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi dell’università, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dell’assolo finale.

      L’improvviso

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