Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo. Guido Pagliarino

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Il Metro Dell'Amore Tossico – Romanzo - Guido Pagliarino

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la premiazione sarà nel parco di villa Valente, fuori città. Le prime edizioni sì furono a Brooklyn, negli anni '40 e '50, quando c'erano ancora moltissimi italiani. Oggi il premio, di Brooklyn, ha soltanto più il nome."

      Istintivamente avevo sfiorato col medio della sinistra l'unghia dell'indice dell'altra sua mano, che teneva posata da un buon tempo a mezza tavola, a fianco del mio bicchiere di minerale.

      Non s’era ritratta.

      A fine pranzo, m'aveva proposto di fare un giro per la città. Non avevamo impegni, infatti, fino alle sette di sera. Il primo appuntamento del mio soggiorno prevedeva, per quell'ora, un aperitivo nell'appartamento niùiorchése di Mark Lines, il mio editore americano. Finalmente ci saremmo conosciuti. Aveva famiglia ma ci avrebbe ricevuti solo: "Si tratta d'un piccolo attico che tiene di base in città, dove vive con un cameriere: moglie e figli abitano nel verde, a una quarantina di miglia da qui, e con loro si vede nei fine settimana", m’aveva spiegato Norma. Aveva aggiunto che sarebbero stati ospiti anche due dei Valente, fratello e sorella, e alcuni altri potenti della città: "Nonostante i milioni d'abitanti, le famiglie che contano davvero sono poche centinaia e si conoscono quasi tutte fra loro." Dopo l'aperitivo dal Lines, avrei cenato con lui e la mia interprete in un vicino ristorante di Manhattan; poi, libertà per me di fare ciò che preferivo. La mia assistente aveva due biglietti per un concerto, se volevo potevamo andarci o, se no, che proponessi io. La premiazione sarebbe stata il giorno dopo, alle 18. Cravatta nera ma, dato il gran caldo di quei giorni, diritto a indossare un camiciotto subito dopo. Di seguito, una festa in mio onore, nel parco della villa.

      "La conduco io per la città, signor Velli, o ha qualche preferenza?" Aveva acceso il motore.

      "Intanto, preferirei mi chiamasse Ranieri; anzi, Ran, ch’è più semplice. Posso chiamarla Norma?" Avevo avuto l'impulso di sfiorarle nuovamente la mano, che aveva posato sul cambio per la manovra, però m’ero trattenuto. Le avevo invece osservato a lungo il profilo.

      Lei, senza guardarmi, aveva risposto: "Va bene, diamoci pure del tu."

      "Mi piacerebbe vedere Brooklyn. Cosa ne pensi?"

      "Okay, Ran."

      

      Eravamo ormai sul ritorno, quasi al fondo della Brooklyn-Queens Expwy, lungo i moli e verso i ponti.

      "…e adesso, dove vogliamo andare?" m’aveva chiesto Norma.

      "A mangiare qualcosa di buono."

      "A mangiare? T'è venuta fame?!"

      "Non ho toccato quasi nulla." Avevo avuto un'ispirazione. Prendendola alla lontana, avevo azzardato: "Se tu sai di qualche cucina disponibile, potrei preparare io qualcosina d'accettabilmente gustabile."

      "Sai cucinare? e ti piace?" La sua voce sapeva di sorpresa e divertimento: "Io lo odio."

      "A me piace e, almeno, so quel che mangio; ma dove la troviamo una cucina?" Le avevo sfiorato il braccio in una brevissima carezza.

      "Da me", aveva sorriso.

      Era un piccolo alloggio nella Trentaquattresima, presso l'Herald Square, a Manhattan, al pianterreno d'una casa antica appena ridipinta. Non era distante dall’albergo. Un bell'appartamento: dall'atrio-salotto, abbastanza ampio, con mobili in piuma di mogano stile inglese '800 e due brevi divani moderni contrapposti, poco più che poltrone, s'intravedeva a sinistra, per l'uscio lasciato aperto, il canterano della camera da letto, Luigi XV; l'ingresso s'apriva al fondo, per una porta ad arco, su di una bella cucina, tutta in legno di noce. Il bagno doveva essere attiguo alla camera da letto.

      "Abito in affitto", aveva precisato Norma, "mobili compresi. Fino al mese scorso vivevo nell'attico di mio marito, qui vicino. Arnold vi ha pure l'atelier."

      "L'atelier? Cos'è, un sarto?"

      "Ma no", aveva riso, "è Arnold Miniver, il pittore."

      Non l'avevo mai sentito nominare: "È famoso?"

      "Famosissimo!" s’era stupita: "Ha venduto anche in Italia; ma non lo conoscevi?!"

      "Francamente no." L'avevo fatta corta: "Posso andare in cucina?"

      "Oh... certo, siamo qui apposta, no?" L'espressione indicava un ben diverso pensiero. Per la verità avevo pensato, a un certo punto, d'abbandonare l'idea del pranzo e volgermi subito al corteggiamento, ma la fame c'era e, dopotutto, quel rimandare poteva essere una buona tattica per aumentare il suo interesse per me; a patto ch'io le mostrassi subito il mio. Nel superarla, le avevo fatto scorrere una lievissima carezza sulla schiena.

      In dispensa non aveva molto. Avevo improvvisato con quel poco, carne cruda affettata sottile, cetriolini sotto aceto, yogurt, prezzemolo surgelato, pomodori; e m’ero accinto a preparare quattro deliziose scaloppine. Avevo tritato finemente i cetriolini mescolandoli poi allo yogurt in un tazzone, con un poco di sale e un po' di prezzemolo che avevo prima scongelato con un momento di forno. Avevo lasciato riposare. Intanto avevo messo al fuoco una spessa padella antiaderente, su vivace fiamma, posandovi un pezzo di carta bianca. Quand’era scurita nei punti a contatto col fondo, avevo levato la carta e disteso le carni nella padella. Sempre su fiamma altina, avevo cotto per un quattro minuti, due per ogni faccia delle bistecchine, finché s’era formata su entrambe una crosticina bruna. Avevo salato e servito in due piatti, coprendo la carne con la salsa fredda. Qualche pomodoro a fette per contorno e guarnizione. Una bontà velocissima! Norma, seppure a dieta, aveva mangiato intera la sua porzione, lietamente. Sì, anche le donne possono conquistarsi così, prendendole per la gola.

      Non sapevo che, forse proprio in quel momento, qualcun altro si stava preparando a prendere per la gola me, con una bevanda; e con ben diverso obiettivo.

      

      S’era rimasti in intimità fin quasi all'ora dell'aperitivo.

      Per il mio animo non sarebbe stata una semplice avventura di viaggio. Nel tornare in albergo con Norma, avevo cominciato a comprenderlo.

      Avevo già fatto la doccia da lei e al Plaza m’ero cambiato in un momento; ma eravamo giunti lo stesso dal Lines con mezz'ora di ritardo, per ultimi: "Va bene così", m’aveva sussurrato lei, appena prima d’entrare, nel vedere che guardavo l’orologio, "sei l'ospite d'onore."

      Forse non andava tanto bene al padron di casa che, non appena il cameriere, un mulatto sulla sessantina d'aspetto fragile, ci aveva introdotti, s’era lasciato scappare un sorridente "Oh, finalmente!" ma subito s’era corretto: "Eravamo tutti impazienti di conoscerla di persona, signor Velli!" e, dopo avermi stretto la mano, volgendosi ai presenti m’aveva applaudito. Gli altri s'erano uniti.

      L'editore appariva sulla cinquantina, capelli folti sale e pepe tenuti incolti, media altezza e magrissimo; ma forte: la stretta di mano era stata potente.

      Eravamo una ventina. Gli ospiti più importanti, come avevo capito dall'atteggiamento

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