Arena Uno: Mercanti Di Schiavi . Морган Райс

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Arena Uno: Mercanti Di Schiavi  - Морган Райс Trilogia Della Sopravvivenza

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da non so quando, non sento la fame che morde, non sente il freddo che mi buca le punte delle dita. Anche il vento, man mano che scendo, sembra rimanere dietro di me, come se mi aiutasse ad andare avanti, e sento che le cose finalmente sono girate. Per la prima volta da tanto tempo, so che possiamo farcela.

      Che possiamo sopravvivere.

      DUE

      Tempo che raggiungo casa di papà è il crepuscolo, la temperatura scende, la neve inizia a indurirsi e a crepitare sotto i miei piedi. Esco dal bosco e vedo casa nostra, piazzata in bella vista sul ciglio della strada; sono sollevata nel vedere che tutto sembra tranquillo, esattamente come l’avevo lasciato. Scandaglio subito la neve per eventuali impronte di persone – o di animali – in entrata o in uscita, e non ne trovo nessuna.

      Non ci sono luci accese in casa, ma questo è normale. Mi preoccuperei se ce ne fossero. Non abbiamo elettricità, e vedere delle luci potrebbe significare solo che Bree ha acceso delle candele – e non lo farebbe mai senza di me. Mi fermo e rimango in ascolto per diversi secondi: e tutto tace. Nessun rumore di lotta, nessun pianto d’aiuto o di dolore. Tiro un sospiro di sollievo.

      Una parte di me teme sempre di tornare e trovare la porta spalancata, la finestra frantumata, impronte intorno alla casa, Bree rapita. Ho fatto quest’incubo diverse volte, e ogni volta mi sveglio sudando, e cammino fino all’altra stanza per assicurarmi che Bree è lì. E ogni volta è lì, sana e salva, e mi rimprovero. Lo so che dovrei smettere di preoccuparmi, dopo tutti questi anni. Ma per qualche motivo, non riesco a scrollarmi di dosso questo pensiero: ogni volta che devo lasciare Bree da sola, è come una piccola lama nel cuore.

      Rimango in allerta, controllo la casa e tutt’attorno sotto la luce morente del giorno. A essere onesti, non è mai stata una gran casa. Il tipico ranch di montagna, con la forma di una scatola rettangolare del tutto anonima, addobbato con un rivestimento vinilico da quattro soldi color acqua , che sembrava vecchio il primo giorno e che adesso sembra proprio marcito. Le finestre sono piccole, poche e distanti fra loro, fatte di plastica di scarsa qualità. Sembra di essere in un campeggio per roulotte. Largo circa cinque metri e profondo dieci, dovrebbe essere un’unica camera da letto, ma chiunque l’abbia costruito, nella sua saggezza, ha ricavato due piccole camere da letto e un ancor più piccolo soggiorno.

      Ricordo di averla visitata da bambina, prima della guerra, quando il mondo era ancora normale. Papà, quando era a casa, ci portava qui nei fine settimana, per uscire un po’ dalla città. Non volevo apparire ingrata nei suoi confronti e mi facevo sempre vedere contenta, ma in realtà non mi è mai piaciuta; l’ho sempre vista scura e angusta, e faceva odore di muffa. Da bambina, ricordo che non riuscivo ad aspettare che finisse il weekend per allontanarmi da questo posto. Ricordo che giurai segretamente che quando sarei stata più grande, non sarei mai ritornata qua.

      Adesso, ironia della sorte, sono grata per questo posto. Questa casa ha salvato la mia vita – e quella di Bree. Quando la guerra è scoppiata e siamo dovute fuggire dalla città, non avevamo opzioni. Se non era per questo posto, non so dove saremmo andate. E se questo posto non fosse stato così lontano ed elevato, allora saremmo probabilmente state catturate dai mercanti di schiavi tempo fa. È buffo come da bambini si possano odiare così tanto alcune cose che finisci con l’apprezzare da adulto. Beh, quasi adulta. A 17 anni mi considero un’adulta. E in tutti i casi, negli ultimi anni sono probabilmente cresciuta più che mai.

      Se questa casa non fosse stata costruita proprio sulla strada, così esposta – se fosse giusto un po’ più piccola, più protetta, più addentro nel bosco, non credo che mi preoccuperei tanto. Certo, dovremmo comunque sopportare i muri sottili come carta, il tetto che perde e le finestre che lasciano entrare il vento. Non sarebbe mai una casa comoda, né calda. Ma almeno sarebbe sicura. Adesso, ogni volta che la vedo e guardo il panorama che c’è al di là, non posso fare a meno di pensare che è un bersaglio facile.

      I piedi crepitano sulla neve, mentre mi avvicino alla porta vinilica, e sento un latrato provenire da dentro casa. È Sasha, e sta facendo ciò per cui l’ho addestrata: proteggere Bree. Le sono davvero grata. Sorveglia Bree con tanta cura, abbaia al minimo rumore; il che mi rende abbastanza tranquilla da lasciarla quando vado a caccia. Tuttavia allo stesso tempo, il suo abbaiare a volte mi fa anche temere che ci farà scoprire: dopotutto, un cane che abbaia di solito significa persone. E questo è esattamente ciò che cercherebbe di sentire un mercante di schiavi in ascolto.

      Entro in casa e la zittisco rapidamente. Chiudo la porta dietro di me, sforzandomi di tenere i ceppi in equilibrio in una mano, ed entro nella stanza buia. Sasha si calma, scodinzola e mi salta addosso. Un labrador color cioccolato, di sei anni, Sasha è il cane più fedele che potrei mai immaginare – e la migliore compagnia. Se non era per lei, credo che Bree sarebbe caduta in depressione tanto tempo fa. E anch’io.

      Sasha mi lecca la faccia, si lamenta e sembra anche più eccitata del solito; mi annusa il girovita, le tasche, percependo che ho portato a casa qualcosa di speciale. Poso i ceppi per coccolarla e nel farlo sento le sue costole. È troppo magra. Mi sento in colpa. D’altro canto, Bree e io siamo messe allo stesso modo. Dividiamo sempre con lei tutto ciò che ci procuriamo: noi tre siamo una squadra di uguali. Tuttavia, vorrei poterle dare di più.

      Strofina il naso sul pesce, facendomelo volare via di mano e facendolo cadere sul pavimento. Sasha ci piomba immediatamente di sopra, e con gli artigli lo fa scivolare per il pavimento. Ci salta sopra di nuovo, stavolta mordendolo. Ma non deve piacerle il sapore del pesce crudo, e lo lascia andare. Piuttosto, ci gioca, saltandoci sopra ripetutamente mentre il pesce scivola sul pavimento.

      “Sasha, smettila!”, dico piano, per non svegliare Bree. Ho anche paura che se ci gioca troppo, finisca con lo squarciarlo e sprecare parte della carne buona. Sasha ubbidisce e si ferma. Ma mi rendo conto di quanto è eccitata e voglio darle qualcosa. Infilo una mano in tasca, svito il coperchio di stagno del barattolo, prendo con il dito un po’ della marmellata di lamponi e gliel’avvicino.

      Senza perdere un attimo mi lecca il dito, e mi ripulisce la mano con tre grandi leccate. Si pulisce il muso e torna a fissarmi con gli occhi spalancati, volendone già ancora.

      Le accarezzo la testa, le do un bacio, e mi rimetto in piedi. A questo punto mi chiedo se sono stata premurosa a dargliene un po’ o crudele a dargliene così poco.

      La casa è scura, e incespico, come sempre quando è notte. Difficilmente faccio un fuoco. Per quanto abbiamo bisogno del calore, non voglio rischiare di attrarre l’attenzione. Ma stasera è diverso: Bree deve guarire, sia fisicamente che mentalmente, e so che un fuoco è proprio quello che ci vuole. Mi sento più tranquilla nell’abbandonare ogni tipo di cautela, visto che domani ci sposteremo da qui.

      Attraverso la stanza e raggiungo la credenza, estraggo un accendino e una candela. Una delle migliori cose di questo posto era la sua enorme riserva di candele, uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di avere un papà marine, malato di tecniche di sopravvivenza. Quando venivamo da bambine, l’elettricità se ne andava a ogni tempesta, e di conseguenza aveva fatto riserve di candele, per averla vinta sulle intemperie. Mi ricordo che lo prendevo in giro per questo, che gli diedi dell’accumulatore quando scoprii il suo armadio pieno zeppo di candele. Ora che sono arrivata alle ultime, vorrei che ne avesse accumulate di più.

      Ho tenuto in vita il nostro unico accendino usandolo con moderazione, e travasando un pochino di benzina dalla motocicletta ogni due, tre settimane. Ringrazio Dio ogni giorno per la moto di papà e sono anche grata per avergli fatto il pieno l’ultima volta: è l’unica cosa che abbiamo a farmi pensare di avere ancora un vantaggio, di avere qualcosa davvero di valore, una maniera di sopravvivere se le cose dovessero mettersi male. Papà ha sempre tenuto la moto nel piccolo garage attaccato a casa, ma all’inizio quando siamo arrivati, dopo la guerra, la prima cosa che ho fatto è stata prenderla e portarla su per la salita, nel bosco, e nasconderla sotto cespugli, rami e spine così fitti che nessuno avrebbe mai potuto trovarla.

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