Attacco Agli Dei. Stephen Goldin
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Non c’erano strade nel villaggio. Le capanne erano costruite ovunque il proprietario pensasse che fosse opportuno, il che significava che un residente doveva trovare la sua strada grazie al suo istinto.
Dev arrancò nel pantano, cercando gli uomini del suo equipaggio nella città casuale. Cominciava a piovigginare quando trovò il primo bar – una pioggia pesante e monotona che offuscava i contorni degli oggetti intorno a lei. I capelli castani tagliati cortissimi erano completamente bagnati, e le si incollavano alle tempie e al collo. Ma, a parte la vaporizzazione della pioggia mentre colpiva il suolo, non si udiva alcun suono – nessun pianto di neonato, nessuna voce di persona, nessun rumore di animale domestico. Sembrava come se il villaggio si stesse accovacciando per la paura di qualche orrore senza nome. Infine, avvistò una capanna più grande, con luci che brillavano fra le fessure – un bar. Aumentò il passo iniziando una leggera corsa. Non voleva muoversi troppo velocemente e cadere nel fango; avrebbe dato a quei due pagliacci qualcos’altro di cui ridere se fosse entrata in condizioni così disgraziate.
Entrando nel bar, diede un’occhiata all’illuminazione tenue fornita dalle candele nei candelieri alle pareti. Dopo essere stata fuori nel buio pesto della notte Daschamese, ci volle un po’ di tempo perché i suoi occhi si adattassero. Inoltre, c’era uno strano fumo nell’atmosfera, che Dev indovinò fosse prodotta da qualche droga locale, oltre che dall’alcool. Il fumo le bruciava gli occhi e la costrinse a sfregarsi le lacrime con il dorso delle mani.
Quando riacquistò la vista, ispezionò l’interno. Quattro tavolini erano sparsi a caso, ognuno con quattro sedie intorno, Il proprietario stava in piedi dietro ad un tavolo leggermente più lungo – più un banco da lavoro che non un bancone da bar. Il pavimento era di legno puro e le pareti – eccezion fatta per i candelieri da parete e alcune coperte che coprivano le fessure – erano prive di decorazione.
Diversi Daschamesi occupavano i tavoli. Dev, dall’alto del suo metro e ottanta, torreggiava sui nativi, che erano invece in media un metro e cinquantacinque. I Daschamesi sembravano degli orsacchiotti animati. Una pelliccia spessa, opaca, di vari colori copriva i loro corpi. Camminavano sui loro larghi piedi piatti ed indossavano abiti di lana pesante. Le loro corte, tozze mani, avevano ognuna tre dita ed un pollice opposto. Era impossibile per un umano leggere qualsiasi espressione nelle loro facce ursine, ma i loro occhi non avevano la brillantezza vibrante delle persone vive e vivaci
Alla sua vista, i nativi si alzarono velocemente in piedi, Dev non poteva dire se per rispetto o per paura. Probabilmente un po’ di entrambi, suppose. Dopo tutto lei era uno di quegli strani esseri venuti dal cielo. Molti Daschamesi potevano non avere mai visto un umano da vicino, dato che il loro pianeta era molto al di fuori delle rotte tradizionali del commercio, e poche navi si erano avventurate in questa zona. Ai locali, con la loro tecnologia primitiva, gli umani dovevano sembrare potenti quasi come gli dei.
Toccandosi la guancia, accese il suo traduttore. “Vi prego di non spaventarvi,” disse nel microfono e udì la sua voce uscirne nella ringhiosa lingua Daschamese. “Sto solamente cercando due miei amici. Qualcuno di voi li ha visti?”
Silenzio per un attimo, poi due bassi ringhi, che il computer la informò essere un coro di NO. Ringraziò le persone e con un sospiro si avventurò fuori di nuovo.
La pioggerella era diventata un temporale nel poco tempo che era rimasta all’interno del bar. Dev rimpianse di non avere portato con sé il suo casco, ma avrebbe dovuto portare alcune bombole di ossigeno con sé, in questo caso, e i negozi della Foxfire potevano a malapena affrontare quella spesa. Così i suoi capelli castani divennero stopposi e l’acqua le sgocciolò dalla nuca, mentre arrancava pesantemente attraverso il villaggio al buio per trovare il prossimo bar.
***
Era stata una più asciutta, se non più disperata, Capitano Korrell, quella che aveva camminato fino alla porta della Elliptic Enterprises due mesi prima alla ricerca di un lavoro. Il pianeta era New Crete e la situazione era critica. Il suo padrone di casa l’aveva guardata intensamente mentre lasciava l’appartamento; poteva quasi sentirlo chiedersi quanto tempo gli ci sarebbe voluto per fumigare il luogo e fare entrare un nuovo inquilino – uno che avrebbe pagato l’affitto alla scadenza giusta. I suoi magri risparmi erano completamente svaniti, e le prospettive di un lavoro per il capitano di una nave che era sia una donna che una Eoana erano quanto mai scarse.
La porta si aprì quando suonò, ed entrò nell’ufficio. Il panorama era meglio di quanto si aspettasse. Veramente l’ufficio era situato nella parte della città meno alla moda, ma era stato fatto uno sforzo per preservare la dignità e il comfort. I pavimenti erano ricoperti di moquette, e le pareti erano dipinte di un blu riposante e piacevole. Frammenti di scultura interessanti erano ficcati nelle fessure e un paio di cellulari in argento pendevano dal soffitto. La scrivania della segretaria sembrava essere vero legno e la superficie era piena, ma ordinata. Nella stanza nulla si abbinava pienamente a nient’altro, ma almeno era stato fatto qualche sforzo per renderla abitabile. Dev aveva presentato domanda in alcuni uffici che avevano pareti e pavimenti spogli, e grandi insetti che strisciavano con non-chalance sui ripiani. Questo era un notevole miglioramento.
La segretaria – una simpatica donna di mezza età – si annotò il suo nome, la invitò a sedersi e andò nell’ufficio interno per informare il suo capo dell’arrivo di Dev. Dev iniziò a sfogliare alcune riviste mentre aspettava – inizialmente per calmare il nervosismo, ma dopo solamente un minuto era assorbita nell’argomento. Considerò quasi un’intrusione il fatto che la segretaria ritornasse per dirle che il signor Larramac l’avrebbe vista di lì a poco.
Seguì la donna nell’ufficio interno, un tributo all’eclettismo. Larramac era evidentemente un collezionista di soprammobili, perché la stanza era addobbata con dei piccoli gadget particolari: un idrante dei vecchi tempi, un assortimento di rocce colorate, un set di vasi da fiori in porcellana e molti piccoli oggetti che i suoi occhi non riconobbero immediatamente. Dei manifesti coprivano le pareti: “Il lavoro è quello che fai affinché un giorno non lo dovrai più fare” “credo che entrare nell’acqua bollente – mi manterrà pulito.”
Poi Dev notò l’uomo dietro la scrivania. Era magrissimo, e il suo corpo sembrava composto interamente di angoli acuti. I suoi vestiti erano di colori violenti sul rosso e sul blu, e i suoi pantaloncini erano solo una sciocchezza super imbottita. Aveva un pizzetto grigiastro e capelli che si stavano diradando - sebbene non abbastanza da giustificare un trapianto. La striscia rasata dalla fronte al retro della testa – un’affettazione che indicava che sperava di unirsi alla società un giorno - era tatuata con un disegno di numeri abilmente intrecciati per formare un motivo intrigante. I suoi occhi non erano mai fermi, ma dardeggiavano nella stanza, come se avesse paura di perdersi qualche evento speciale.
“Lei è Ardeva Korrell?” le chiese mentre si stringevano la mano.
“Esatto.”
“Non ci sono molti capitani di navicelle spaziali donne, giusto?” Il suo discorso era veloce quanto senza filo. Dev non riusciva a decidersi se fosse un tratto buono o cattivo.
“Ce n’era un’altra oltre a me nella mia classe di laurea, su centodieci,” rispose formalmente. “Tuttavia, in questa professione ci sono ancora meno nani con i capelli rossi e mancini.”
“Suppongo di sì.