Lo Senti Il Mio Cuore?. Andrea Calo'

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Lo Senti Il Mio Cuore? - Andrea Calo'

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quello stupido idiota! Mi ha lasciata con un messaggio sul telefono. Non ha avuto nemmeno il coraggio di parlarmi, di guardarmi in faccia quel codardo!».

      «Oh, capisco! E che cosa dice quel messaggio?».

      «Dice che mi lascia. Che cosa vuoi che dica?».

      «Le parole sono molto importanti tesoro mio! Da quelle parole puoi capire se lui ha paura, se ha solo bisogno di un po’ di tempo, se c’è ancora speranza oppure se è davvero finita per sempre», replicai con la fierezza di una donna che aveva maturato una certa esperienza a riguardo.

      Scocciata, Claire infilò una mano in tasca e recuperò il telefono. Schiacciò un po’ di tasti con una velocità impressionante, movimenti che a me sembravano del tutto casuali ma che per lei avevano un senso preciso. Poi, ritrovato il messaggio, me lo lesse.

      «Allora, dice così: Ti prego di perdonarmi ma non penso che tra noi possa funzionare. Ti ho voluto tanto bene e tu hai voluto bene a me, questo lo so bene. Ma ora questo tempo è finito. Io ho fatto una scelta diversa, so che mi capirai e che mi accetterai anche per questo, per la mia debolezza e per la mia codardia. Non cercarmi più, io non ti cercherò. Buona vita Claire, addio. Questo è tutto!».

      Richiuse il telefono e lo infilò nuovamente in tasca mentre con un dito asciugava una timida lacrima che si affacciava sui suoi splendidi occhi blu.

      «E’ un ragazzo maturo, Claire. Le sue sono parole sincere e quindi dolorose da sentire, soprattutto quando il cuore non le vorrebbe mai sentir pronunciare dalla persona che si ama».

      «Maturo o non maturo non è una cosa che mi riguarda più. Ha la mia età nonna e a quindici anni è concesso conservare un briciolo di immaturità!», sbottò. Io la lasciai sfogare, era la cosa migliore da fare in quel momento.

      «Se si è immaturi non si possono portare in tasca le chiavi di casa», dissi accennando un leggero sorriso mentre voltavo lo sguardo verso Rose, «Dico bene bambina mia?».

      «Ma… mamma!».

      «Io ho già le chiavi di casa in tasca da molto tempo nonna», replicò Claire, mostrandomele con orgoglio e una leggera smorfia. Le sorrisi, Claire ricambiò, Rose abbassò lo sguardo verso il pavimento, ammutolita e a disagio.

      «Anch’io voglio le chiavi di casa, anch’io le voglio! Mamma, papà, quando me le date? Ci voglio giocare!», strillò il piccolo Tommy che nel frattempo ci aveva raggiunti, divertito dalla scenetta recitata proprio davanti ai suoi piccoli occhi da improvvisati attori rimasti da soli a riempire il palcoscenico della vita.

      Chissà come ci vedeva quel bambino da laggiù, con lo sguardo perennemente rivolto verso l’alto. Questi adulti “strani” che parlavano di cose “strane” invece di starsene belli tranquilli a giocare con i loro pupazzi. Forse si chiedeva dove li avevamo messi tutti i nostri pupazzi, i nostri giocattoli. Forse avrebbe voluto vederli, toccarli, prenderli per giocare con noi. E lui li avrebbe animati con la sua fantasia, gli avrebbe dato vita, forme e colori come solo un bambino sa fare. Per lui tutto è un gioco, la vita stessa è un gioco. E ogni volta il gioco è diverso anche se i pupazzi sono sempre gli stessi, perché nessuno meglio di un bambino è in grado di valutare tutte le possibili alternative, per renderle reali e dargli forma nella sua mente. Quindi perché mai non giocare, perché gettarsi tra le braccia di una esistenza fatta di paure, preoccupazioni e problemi? Lui chiedendo le chiavi voleva entrare a far parte del nostro mondo, ma noi avevamo già superato la fase della spensieratezza, avevamo affrontato con successo quella della conquista, della fatica. Ed io, a differenza degli altri, avevo già provato anche il gusto acre di quella dell’abbandono, per ben due volte. Gli altri, i più giovani, erano ancora fermi alle stazioni precedenti e da lì si godevano il paesaggio, bello o brutto che fosse, in attesa che il treno della vita li conducesse altrove, senza sapere dove. Potevano guardare in avanti alla ricerca di una meta. Ma anche indietro, verso il punto di partenza dove tutto il loro mondo ebbe inizio, nel fumo dei ricordi raddolciti dallo scorrere del tempo. Nel loro viaggio erano accompagnati da altri passeggeri, alcuni tristi altri felici, sani o malati. Proprio come loro. Cloni di una civiltà che vuole rendere tutti uguali, un formicaio osservato da un essere superiore dove i “diversi” sono considerati come anomalie, come formiche che camminano nella direzione opposta e non troveranno mai le briciole. Io invece potevo sforzare lo sguardo se lo rivolgevo verso l’inizio, verso il mio passato, attraverso la fitta nebbia dove tutti i miei ricordi si mescolano. Sono i miei, solo miei, disordinati e sparsi come soldati morti su un campo di battaglia che non avevano deciso dove cadere, uccisi mentre cercavano di portare a compimento il loro progetto e lì abbandonati per sempre, dimenticati da tutto e da tutti. Se guardo in avanti so che l’ultima stazione del mio viaggio non è poi così lontana. La posso quasi vedere, toccare con mano, la sento. Raggiungere la mia stazione d’arrivo è il mio ultimo progetto, quello che porterò a compimento prima o poi. E ora che anche l’ultimo mio compagno di viaggio entrato nel mio vagone a metà del tragitto, l’uomo che mi aveva tenuto compagnia facendomi sentire più viva che mai, era sceso dal treno senza nemmeno salutarmi, mi sentivo più prossima alla meta seppur in preda alla paura e al totale smarrimento. Lui era arrivato alla sua stazione, dove si concludeva la sua vita, il suo viaggio. Il prezzo che aveva pagato all’inizio per il suo biglietto gli permetteva di arrivare fino a lì, non gli era concesso andare oltre. A volte fantastico sui tramonti che vedrà da quel luogo, seduto da solo su una panchina in una stazione deserta. Mi chiedo anche se i raggi del sole che vedrà spuntare al mattino assomiglieranno a quelli che avevamo visto insieme durante le nostre mattine, seduti sul treno che procedeva nel viaggio senza che noi ce ne rendessimo conto. Attenderò quindi il mio tramonto con serenità ma senza fretta, accompagnata dal fumo dei miei ricordi e in attesa di fondermi con loro, per trasformarmi in un nuovo soldato caduto sul campo di battaglia e lì dimenticato. Da oggi sarò solo una spettatrice e osserverò le immagini della mia vita dispiegarsi al di là del finestrino del treno in corsa e ad ogni suo sobbalzo sulla rotaia ricorderò che sono ancora qui. Osserverò i passanti e aiuterò quelli che, smarriti nelle loro esistenze, mi chiederanno informazioni per raggiungere la loro meta. Ma non pretenderò mai di essere ascoltata e accetterò le critiche che mi saranno avanzate sul modo in cui io, semplice donna di periferia, ho affrontato il mio viaggio. E all’arrivo dell’alba ci sarà lui ai piedi del mio letto, lui come un’ombra nera e dai dettagli indefiniti mi risveglierà e mi chiederà di seguirlo per assistere ancora una volta ad una nuova nascita, la mia.

      Claire mi guardava, forse aspettava una replica da parte mia che alimentasse quella discussione che appariva sterile ai miei occhi anziani. Potevo fare di più per lei, potevo farle un regalo. Quindi la delusi, non replicai alla sfida, ma mi arresi spogliandomi totalmente davanti a lei.

      «Claire, vieni con me in giardino. Ti racconterò una storia se ti fa piacere».

      «Di cosa si tratta nonna? Non mi parlare di favole o cose del genere, non sono più una bambina e non sono nemmeno dell’umore adatto per ascoltare storielle alle quali non credo più da tanto tempo».

      «Si, forse è una favola piccolina mia. Dici bene. E’ per questo motivo che quando ci ripenso e prendo coscienza di quanto sia stata importante per me, sento i brividi attraversarmi il corpo in lungo e in largo. Ti parlerò della mia vita se vorrai stare ad ascoltarmi, perché tu possa confrontarla con la tua e per scoprire che nonostante le nostre generazioni tra loro così distanti non siamo poi così diverse tu ed io».

      Claire fissò Rose per un istante. Rose le sorrise invitandola a seguirmi. Era commossa, lei conosceva tutta la mia storia fin nei minimi dettagli, anche quelli più intimi, uno dei quali si era trasformato in lei stessa. Accettò il mio invito con un silente movimento del capo, gli occhi bassi fissavano il pavimento. Era il suo modo per dirmi grazie. Il sole al crepuscolo confondeva i colori del mondo, uniformandoli in un’unica macchia nera e piana, privata della sua profondità. Sedute sulla stessa panca dove noi ci fermammo ad ammirare il tramonto per tante primavere, assaporavamo il gusto di

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