l’Ascesa . Морган Райс
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Bravo, pensò Luna, e cercò di dirlo, senza però riuscire a tirare fuori il suono dalla gola. Non poteva neanche accarezzarlo, e questo le fece capire quanto controllo gli alieni avessero ormai su di lei. Bobby la spinse ancora con il naso, poi si allontanò di corsa come ad aspettarsi che lei lo seguisse. Quando vide che non aveva ottenuto alcuna reazione, si distese piagnucolando e guardandola con occhi tristi.
Mi spiace, Bobby, pensò Luna, ma non poteva comunque dirglielo.
Non era l’unica cosa per cui si sentiva dispiaciuta. Attorno a lei poté vedere i motociclisti di Capopolvere fermi come tutti gli altri. Vedeva Orso che spiccava con la sua imponenza sul resto del gruppo, tutto il senso di forza e comando eliminato dalla sua trasformazione. Vide poco più in là Lupetto che la fissava con sguardo vuoto, mentre prima si era dimostrato così sicuro di sé e addirittura interessato a lei.
Siete ancora là dentro? si chiese dalla prigione della propria mente. Tutti coloro che erano stati trasformati si trovavano in trappola in quel modo? Erano lì seduti dietro al bianco candido delle loro pupille, inorriditi mentre gli alieni controllavano ogni movimento che facevano? Luna non sapeva se sperare che Lupetto non dovesse soffrire tutto questo, o invece sì, perché almeno avrebbe voluto dire che era ancora presente, e che almeno c’era una minima possibilità di riportarlo indietro.
Quale possibilità? pensò tra sé e sé. Che speranza c’era per tutti loro? Nessuno era tornato indietro da quella condizione fino ad ora. Gli alieni avevano trasformato la maggior parte del mondo, e la gente che veniva trasformata restava trasformata. Non era come amare la band sbagliata, non era una cosa che si poteva esaurire se la si trascinava troppo a lungo.
Ora Luna poteva sentire dei rumori provenire dal fondo della propria mente. Riconobbe le interferenze e gli scatti, i suoni statici e i ronzii, perché li aveva sentiti ormai tantissime volte, quando Kevin traduceva i segnali alieni. Luna poté sentirli come se fosse la loro lingua, anche se non aveva idea di cosa significasse.
Poteva non saperlo, ma il suo corpo parve comprendere. Luna sentì che iniziava a muoversi, mettendosi in formazione con le altre persone, come una sorta di unità militare. Non sapeva chi stesse dando loro gli ordini, dato che la nave aliena principale se n’era andata. Forse qualcuno degli alieni era rimasto a terra.
Non aveva importanza: chiunque le stesse dando degli ordini, Luna si trovò ad obbedire. Iniziò a marciare insieme agli altri, sparpagliandosi in mezzo alle macerie di Sedona, iniziando a sollevare detriti e a entrare nelle case.
A Luna pareva di osservare la scena da lontano, guardandosi mentre sollevava rocce e tirava via pezzi di legno a mani nude. Si vedeva al lavoro insieme a Lupetto e agli altri, tutti impegnati a ripulire la città con la meticolosità di formiche che tagliano delle foglie o di avvoltoi che dilaniano la carcasse di un animale.
Sentì Bobby che abbaiava ancora e se lo ritrovò di nuovo al fianco. Il cane guaiva e le correva attorno come a poterla distrarre da ciò che stava facendo. Le leccò ancora la mano, poi strinse i denti dolcemente attorno al suo braccio. Non lo fece con forza, ma più come avrebbe fatto con un cucciolo ribelle per rimetterlo in riga.
Bobby era forte e probabilmente pesava quasi quanto lei, ma Luna andò dritta avanti come se non fosse neanche lì. Continuò a lavorare, raccogliendo materiali e impilandoli in mucchi, dividendoli con l’efficienza di una macchina.
Luna vide tagli e graffi che iniziavano ad apparire sulle sue braccia per lo sforzo di spostare i materiali, ma non sentì alcun dolore. I suoi arti erano insensibili come se li avesse lasciati per un’ora immersi nel ghiaccio, il dolore isolato da strati di controllo alieno.
Luna ora poteva sentire quel controllo mentre Bobby continuava ad abbaiare e correrle attorno. Poteva percepire ciò che volevano che lei facesse, e lottò per ribellarsi, la piccola parte di lei che ancora era cosciente, inorridita dalla situazione, anche se il resto di lei continuava a raccogliere un’altra roccia.
No! ordinò a se stessa. Non lo faccio! Non lo faccio!
Lottò contro gli impulsi con ogni fibra del suo essere, tirando contro le proprie braccia con tutta la forza di volontà che prima aveva avuto tanto successo contro ogni cosa, dalle istruzioni dei suoi genitori al tumulto dell’oceano. Ma era troppo, come tentare di tenere indietro a mani nude il peso di una valanga. Con un grido interiore di disperazione, Luna sentì che la valanga le si riversava addosso.
Si girò e lanciò la pietra contro Bobby, piangendo mentre lo faceva.
Il cane guaì, poi si allontanò piagnucolando e zoppicando leggermente da una zampa. Luna lo vide ritirarsi al limitare degli edifici ai quali stavano lavorando, sdraiarsi e guardarla con occhi disperati che corrispondevano a ciò che lei stessa provava in quel momento.
Ma quello che Luna provava non aveva importanza, non di fronte alle istruzioni degli alieni. Non importava quanto la sua mente fosse schiacciata oltre i confini della gabbia che la costringeva: la prigione del suo corpo continuava a lavorare, sollevando e strappando, separando materiali e impilandoli pronti per la raccolta, anche se la navicella sopra a Sedona ora era andata via.
Cercò di contare i minuti che passavano, cercò di tenere traccia del tempo che stava scorrendo, ma non era semplice farlo. Il suo corpo manteneva i suoi occhi fissi sul lavoro che stava facendo, non sulla posizione del sole, e se era stanca o aveva fame, non lo sentiva. Nei più profondi recessi della sua mente, Luna ora capiva come facessero i controllati a essere tanto veloci e forti: non si curavano del dolore o della stanchezza che avrebbe fermato la maggior parte della gente comune. Laddove la maggior parte delle persone si fermavano per aver raggiunto i propri limiti, i controllati erano spinti per tutto il tempo oltre quegli stessi limiti dagli alieni che li comandavano.
Che ci comandano, si corresse Luna.
Non voleva pensare a se stessa come a una di loro, ma non era sicura di come distrarsi da tutto ciò. Non poteva chiudere gli occhi per isolare tutto fuori. Il più che poteva fare era tentare di restare aggrappata ai ricordi della sua vita prima di questo: stare seduta sulla riva del lago con Kevin quando le aveva detto della sua malattia, andare a scuola e… e…
Si aggrappò a un ricordo, pensando a un giorno in cui avrebbe dovuto incontrare Kevin dopo scuola. Avevano programmato di andare in una pizzeria all’angolo, poco distante da casa loro. Poteva ricordare la sensazione, come era stato camminare per la loro città, passando per un posto che era loro e basta, un luogo di cui nessuno sapeva, dietro a una delle recinzioni di legno che circondavano una vecchia casa dove nessuno viveva da anni.
Andare lì significava arrampicarsi su un vecchio albero che teneva libero un passaggio in mezzo a una catasta di vecchie cianfrusaglie, poi correre sulle tavole di un basso tetto, mettendo i piedi nei punti giusti per evitare di caderci attraverso, e nel frattempo controllando per tutto il tempo di non farsi vedere da nessuno che potesse gridare loro dietro per essere in un posto dove non avrebbero dovuto stare.
In altre parole, era esattamente il genere di cose che Luna adorava fare. Aveva percorso le tavole con il genere di velocità e determinazione che probabilmente avrebbero fatto sospirare i suoi genitori se l’avessero vista. Mentre correva si era trovata a pensare a Kevin, chiedendosi se oggi sarebbe stato il giorno in cui si sarebbe presentato chiedendole se poteva baciarla.
Forse no: era capace di dimostrarsi