Il regno dei draghi. Морган Райс

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Il regno dei draghi - Морган Райс

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principe era in piedi lì, a stringersi forte il braccio, strofinandolo per riportarsi una qualche sensazione alle dita.

      Devin non poteva fare altro che fissarlo. Era davvero riuscito a fare una cosa del genere? Come? Come poteva qualcuno far venire un crampo al braccio di un avversario solo con il pensiero?

      Richiamò il sogno un’altra volta…

      “Basta così,” urlò una voce, interrompendoli. “Lasciatelo andare.”

      Il principe Rodry entrò nel cerchio d’armi e i giovani uomini fecero un inchino in risposta alla sua presenza, quasi tirando un sospiro di sollievo per il suo arrivo.

      Devin di sicuro lo fece, tenendo ancora gli occhi sul principe Vars, e sull’arma che adesso teneva in quella mano impedita.

      “Basta così, Vars,” disse Rodry. Si mise tra Devin e il principe e quest’ultimo esitò per un momento. Devin pensò che potesse far vorticare lo stesso la spada, noncurante della presenza del fratello, ma invece gettò la lama da una parte.

      “Non volevo venire qui, comunque,” disse, e uscì in modo altero.

      Il principe Rodry si rivolse a Devin, e non dovette neanche pronunciare una sola parola perché venisse rilasciato dagli uomini che lo tenevano.

      “Sei stato coraggioso a difendere il ragazzo,” disse. Sollevò la lancia che teneva. “E hai fatto un buon lavoro. Mi è stato detto che questa è una delle tue.”

      “Sì, vostra altezza,” rispose Devin. Non sapeva cosa pensare. Nel giro di qualche secondo, era passato da essere certo di morire a essere rilasciato, da essere ritenuto un traditore a ricevere degli elogi per il suo lavoro. Non aveva alcun senso ma, del resto, perché le cose avrebbero dovuto essere sensate in un mondo dove lui aveva appena usato… la magia?

      Il principe Rodry annuì e poi si voltò per andarsene. “Fai più attenzione in futuro. Potrei non essere qui a salvarti la prossima volta.”

      Ci vollero diversi secondi prima che Devin potesse decidersi ad alzarsi, riprendendo fiato con brevi raffiche. Rivolse lo sguardo verso Nem, che stava cercando di tenere chiusa la ferita sul suo braccio. Sembrava spaventato e scosso per ciò che era accaduto.

      Il Vecchio Gund era lì adesso, stava afferrando il braccio di Nem per avvolgerlo con un panno. Guardò Devin.

      “Dovevi proprio metterti in mezzo?” chiese.

      “Non potevo permettergli di fare del male a Nem,” disse Devin. Era una cosa che avrebbe rifatto, centinaia di volte se ve ne fosse stato bisogno.

      “La cosa peggiore che poteva ricevere era qualche botta,” disse Gund. “Ne abbiamo tutti passate di peggiori. Adesso… devi andartene.”

      “Andarmene?” chiese Devin. “Per oggi?”

      “Per oggi, e per tutti i giorni a seguire, stolto,” disse Gund. “Credi che possiamo permettere a un uomo che ha sfidato un principe di restare alla Casa delle Armi?”

      Devin sentì il respiro abbandonargli il petto. Lasciare la Casa delle Armi? L’unica vera casa che avesse mai conosciuto?

      “Ma non ho…” esordì Devin, ma si fermò.

      Non era Nem, per credere che il mondo sarebbe andato come voleva solo perché era la cosa giusta. Era ovvio che Gund lo avrebbe cacciato; Devin sapeva prima di intervenire cosa poteva costargli.

      Lo guardò e annuì, era tutto ciò che poteva fare in risposta; poi, si voltò e iniziò a camminare.

      “Aspetta,” gridò Nem. Corse al suo banco da lavoro e poi si precipitò a raggiungerlo con qualcosa avvolto in un cencio. “Io… io non ho molto altro, ma mi hai salvato. Dovresti prenderlo tu.”

      “L’ho fatto perché sono tuo amico,” replicò Devin. “Non devi darmi niente.”

      “Voglio dartelo,” rispose Nem. “Se mi avesse colpito la mano, non avrei potuto fare nient’altro, quindi voglio che tu abbia qualcosa che ho fabbricato io.”

      Passò l’oggetto a Devin, che lo prese con cura. Scartandolo, poté vedere che era… beh, non proprio una spada. Un lungo coltello, una coltella a due mani, giaceva lì, troppo lungo per essere un vero coltello ma non abbastanza da essere una spada. Era a un solo taglio, con un’elsa che sporgeva solo da un lato, e un punto cuneiforme. Era un’arma da contadino, da tempo rimossa dagli spadoni e dalle spade d’armi dei cavalieri; ma era leggera, letale e bellissima. Devin poteva vedere a colpo d’occhio, mentre la faceva ruotare e brillare alla luce, che poteva essere molto più svelta e fatale di qualsivoglia spada vera e propria. Era un’arma invisibile, subdola e veloce; era perfetta per la corporatura leggera e la giovane età di Devin.

      “Non è finito,” disse Nem, “ma so che puoi terminarlo meglio di me e l’acciaio è buono, giuro.”

      Devin la fece oscillare per testarla, sentendo la lama tagliare l’aria. Voleva dirgli che era troppo, che non poteva accettarlo, ma era evidente quanto Nem desiderava che lo prendesse.

      “Grazie, Nem,” disse.

      “Avete finito voi due?” disse Gund. Guardò Devin. “Non posso dire di non essere dispiaciuto di vederti andare via. Sei un gran lavoratore e uno dei fabbri migliori qui dentro, ma non puoi restare se questo ci si ritorce contro. Devi andartene, figliolo. Adesso.”

      Devin voleva ribattere ancora, ma sapeva che era inutile e aveva appena realizzato di non voler più stare lì. Non voleva rimanere in un luogo dove non era desiderato. Quello non era mai stato il suo sogno. Quello era stato un modo per sopravvivere. Il suo sogno era sempre stato diventare un cavaliere, e adesso …

      Adesso sembrava che i suoi sogni racchiudessero cose molto più strane. Doveva capire di cosa trattavano.

      Il giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.

      Poteva essere questo ciò che intendeva lo stregone?

      Devin non aveva scelta. Non poteva capovolgere le cose, non poteva tornare alla ferriera per rimettere tutto nel posto in cui doveva stare.

      Al contrario, uscì nella città. Nel suo destino.

      E nel giorno tanto atteso che aveva davanti.

      CAPITOLO SESTO

      Nerra camminava da sola per i boschi, scivolando fra gli alberi e godendosi la sensazione della luce solare sul volto. Immaginava che chiunque al castello si fosse ormai accorto che era uscita di soppiatto, ma sospettava anche che non gliene sarebbe importato molto. Avrebbe solo ostacolato i preparativi delle nozze con la sua presenza.

      Lì, nella natura, era a suo agio. Si attorcigliava fiori fra i capelli scuri, lasciando che si unissero alle sue trecce. Si tolse gli stivali, legandoseli insieme sulle spalle, in modo da sentire la terra sotto ai piedi. La sua figura sottile compariva e scompariva fra gli alberi, quasi eterea in un vestito dai colori autunnali. Era a maniche lunghe, ovviamente. Sua madre le aveva inculcato che non potesse essere altrimenti molto tempo addietro. La sua famiglia poteva essere a conoscenza della sua infermità, ma nessun altro lo era.

      Amava stare

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