Il regno dei draghi. Морган Райс
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Dove allora?
Nerra provò a pensare.
Conosceva la foresta bene quanto i corridoi che portavano ai suoi alloggi. Doveva esserci un posto che fosse migliore di uno spazio così aperto...
Sì, sapeva quale fosse.
Avvolse l’uovo fra le braccia, con quel calore misterioso contro al corpo mentre lo sollevava. Era pesante e, per un momento, Nerra temette che le scivolasse, ma riuscì a stringere le mani insieme e si incamminò verso i boschi.
Le ci volle un po’ per trovare il punto che stava cercando, prestando attenzione per scorgere i pioppi tremuli che segnalavano il piccolo spazio in cui si trovava la grotta antica, formata da pietre vetuste, data la borracina che le ricopriva. Si apriva su un lato di una piccola collina nel mezzo della foresta, e Nerra poteva vedere dal terreno attorno a essa che niente aveva deciso di usarla come tana. Questo era positivo; non voleva portare il suo premio in un luogo che lo avrebbe esposto a un pericolo imminente.
La radura suggeriva che i draghi non facevano nidi, ma Nerra ne creò comunque uno per il suo uovo, raccogliendo rami e ramoscelli, erba e cespugli, e poi intrecciando tutto con cura in un cerchio irregolare, sopra al quale lo adagiò. Spinse il tutto indietro, nella metà buia della grotta, sicura che nulla avrebbe potuto vederlo da fuori.
“Eccoci,” gli disse. “Sarai al sicuro adesso, almeno finché non avrò capito cosa fare con te.”
Trovò rami e fogliame, e li usò per nascondere l’entrata. Prese delle pietre e le fece rotolare sul posto, ciascuna così grande che riusciva a malapena a spostarle. Sperava che bastasse a tenere lontane tutte le cose che avrebbero potuto provare ad accedere.
Stava giusto finendo quando udì un rumore e si girò di soprassalto. Lì, fra gli alberi, c’era il ragazzo che aveva intravisto prima. Era in piedi a fissarla, come cercasse di elaborare ciò che aveva visto.
“Aspetta,” gli gridò Nerra, ma quell’urlo bastò a spaventarlo. Si voltò e iniziò a correre, lasciandola a chiedersi cosa avesse visto di preciso e a chi l’avrebbe detto.
Ebbe il brutto presentimento che fosse troppo tardi.
CAPITOLO SETTIMO
La principessa Erin sapeva che non avrebbe dovuto essere lì, a cavalcare nella foresta, diretta a Nord, verso lo Sperone. Avrebbe dovuto essere al castello, a farsi prendere le misure per il vestito da mettere alle nozze della sua sorella maggiore, ma la sola idea bastò a farla sussultare.
Le portava troppi pensieri di cosa poteva aspettarla dopo e del perché se n’era andata. Come minimo, avrebbe preferito stare lì, in sella al suo cavallo e con indosso una tunica, un farsetto e dei pantaloni alla cavallerizza, piuttosto che a farsi mascherare, mentre Rodry si prendeva gioco di lei con i suoi amici, Greave gironzolava avvilito e Vars… Erin trasalì. No, meglio stare lì fuori, fare qualcosa di utile, qualcosa che avrebbe dimostrato che era più di una figlia a cui cercare marito.
Cavalcò nella foresta, connettendosi con le piante ai lati del sentiero mentre passava, anche se quelle affascinavano più Nerra di lei. Galoppò oltre un’ampia quercia e una betulla, osservando le ombre che creavano e cercando di non pensare agli ottimi nascondigli che costituivano.
Suo padre si sarebbe forse arrabbiato con lei per essere uscita senza scorta. Le principesse dovevano essere protette, le avrebbe detto. Non vagavano tutte sole in luoghi di quel genere, dove gli alberi sembravano accerchiare il visitatore e il sentiero era poco più che accennato. Si sarebbe arrabbiato con lei anche per altro, senza dubbio. Forse pensava che non avesse sentito la conversazione con sua madre, quella che l’aveva in pratica fatta fuggire verso le stalle.
“Dobbiamo trovare marito a Erin,” aveva detto la donna.
“Marito? È più probabile che chieda qualche lezione di spada,” aveva risposto suo padre.
“Ed è questo il punto. Una ragazza non dovrebbe fare certe cose, mettersi in quel genere di pericoli. Dobbiamo trovarle marito.”
“Dopo il matrimonio,” aveva detto suo padre. “Ci saranno un sacco di nobili qui per il banchetto e la battuta di caccia. Forse riusciremo a trovare un giovane che possa essere il marito giusto per lei.”
“Potremmo dovergli offrire una dote.”
“Allora lo faremo. Oro, un ducato, ciò che meglio si adatta a mia figlia.”
Il tradimento era stato istanteo e assoluto. Erin si era diretta a grandi passi nei suoi alloggi per raccogliere le sue cose: la sua roba, i suoi vestiti e uno zaino pieno di provviste. Aveva giurato a se stessa che non ci sarebbe stato un ritorno.
“Inoltre,” disse al suo cavallo, “Sono abbastanza grande da fare ciò che voglio.”
Poteva essere la più giovane di tutti i suoi fratelli, ma aveva pur sempre sedici anni. Poteva non essere tutto ciò che voleva sua madre, troppo mascolina con i capelli scuri tagliati alle spalle dove non le avrebbero dato fastidio, mai incline a ricamare, fare riverenze o suonare l’arpa, ma restava comunque più che capace di badare a se stessa.
O almeno pensava di esserlo.
Avrebbe dovuto esserlo, se voleva unirsi ai Cavalieri dello Sperone. Il solo nome del loro ordine le faceva sussultare il cuore. Erano i guerrieri più valorosi del reame, ognuno dei loro nomi apparteneva a un eroe. Servivano suo padre, ma uscivano anche fuori al galoppo, per rimediare a torti e affrontare nemici che nessun altro avrebbe potuto sconfiggere. Erin avrebbe dato qualsiasi cosa per unirsi a loro.
Per questo stava cavalcando a nord, verso lo Sperone; ed era sempre per questo che stava facendo quella strada, attraverso aree della foresta estese e pericolose.
Galoppò, interiorizzando quel luogo. Qualsiasi altra volta, sarebbe stato bellissimo, ma, d’altra parte, qualsiasi altra volta, non sarebbe stata lì. Al contrario, si guardò attorno, con occhi guizzanti, ben consapevole delle ombre da entrambi i lati del sentiero; il modo in cui i rami la sfioravano mentre cavalcava… era un luogo dove poteva immaginare qualcuno scomparire e mai ritornare.
Nonostante ciò, era la strada che doveva percorrere se voleva raggiungere i Cavalieri dello Sperone e, soprattutto, se voleva impressionarli quando sarebbe arrivata a destinazione. Confrontata con l’obiettivo, la sua paura non aveva importanza.
“Perché non ti fermi lì?” disse una voce da un punto più avanti nella foresta.
Erin si sentì percorrere da un fugace brivido di paura a quelle parole, il fremito le corse su per la pancia. Fece fermare il suo cavallo e poi balzò giù dalla sella con un movimento fluido. Quasi come un ripensamento, tirò giù il suo bastone corto, con le mani guantate che lo tenevano senza difficoltà.
“Adesso, che cosa credi di fare con quel bastone?” disse l’uomo più in giù lungo il sentiero della foresta. Uscì, con indosso vestiti tessuti in modo grossolano e un’ascia fra le mani. Altri due uomini sbucarono dagli alberi dietro a Erin, uno con in mano un lungo coltello e l’altro con una spada d’armi che suggeriva che un tempo poteva aver combattuto per conto di un nobiluomo.
“In un villaggio da cui sono passata,” rispose Erin, “mi avevano parlato dei banditi della foresta.”
Non