Il regno dei draghi. Морган Райс
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Il regno dei draghi - Морган Райс страница 5
Le fiamme si dissolsero e adesso era seduto in una stanza dalle pareti circolari, come si trovasse in cima a una torre. Dal pavimento al soffitto, il posto era stipato di rimasugli che dovevano essere stati raccolti da una dozzina di tempi e luoghi diversi; stampe serigrafiche coprivano le pareti, mentre sulle mensole c’erano oggetti in ottone, di cui Devin non riusciva a comprendere lo scopo.
C’era un uomo lì, seduto a gambe incrociate nell’unico angolino libero da oggetti, all’interno di un cerchio disegnato col gesso e circondato da candele. Era calvo, dall’aspetto serio e aveva gli occhi fissi su Devin. Indossava una tonaca pregiata con dei simboli ricamati e dei gioielli che incorporavano motivi mistici.
“Ci conosciamo?” chiese Devin avvicinandosi a lui.
Seguì un silenzio prolungato, così interminabile che iniziò a chiedersi se avesse persino fatto quella domanda.
“Gli astri mi hanno detto che se avessi aspettato qui, in sogno, saresti venuto,” disse infine la voce. “Colui che è destinato a essere.”
Devin comprese dunque chi fosse quell’uomo.
“Siete il Maestro Grey, lo stregone del re.”
Deglutì a quel pensiero. Dicevano che quell’uomo avesse il potere di vedere cose a cui nessun uomo sano di mente vorrebbe assistere; che avesse rivelato al re quando sarebbe morta la sua prima moglie e che tutti lo avevano deriso finché non era svenuta, spaccandosi la testa sulla pietra di uno dei ponti. Dicevano che poteva vedere nell’anima di un uomo ed estrarne tutto ciò che vi trovava.
Colui che è destinato a essere.
Cosa poteva significare?
“Siete il Maestro Grey.”
“E tu sei il bambino nato nel più improbabile dei giorni. Ho guardato e riguardato, e tu non dovresti esistere. Eppure ci sei.”
Il cuore di Devin batteva furioso al pensiero che lo stregone del re sapeva chi fosse. Perché un uomo del genere avrebbe mai dovuto interessarsi a lui?
E, in quel momento, comprese che quello era più di un semplice sogno.
Era un incontro.
“Che cosa volete da me?” chiese Devin.
“Volere?” La domanda sembrò cogliere lo stregone di sorpresa, sempre che qualcosa potesse ancora sorprenderlo. “Volevo solo vederti di persona. Vederti nel giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.”
Devin bruciava dal desiderio di fargli mille domande ma, a quel punto, il Maestro Grey si allungò verso una delle candele attorno a lui, spegnendola con due dita affusolate mentre mormorava qualcosa in modo quasi impercettibile.
Devin voleva fare un passo avanti e comprendere cosa stesse accadendo ma, invece, avvertì una forza a lui sconosciuta trascinarlo indietro, fuori dalla torre, nell’oscurità…
***
“Devin!” urlò sua madre. “Svegliati o salterai la colazione.”
Devin imprecò mentre apriva gli occhi di scatto. La luce dell’alba stava già penetrando attraverso la finestra, nella piccola casa della sua famiglia. Significava che, se non si fosse dato una mossa, non sarebbe arrivato alla Casa delle Armi abbastanza presto e non avrebbe avuto il tempo di fare niente se non catapultarsi nel lavoro.
Rimase disteso sul letto, facendo respiri profondi e cercando di scuotere via la pesantezza e la realisticità del sogno.
Ma, per quanto ci provasse, non ci riusciva. Ce l’aveva appeso addosso, come un mantello opprimente.
“DEVIN!”
Scosse la testa.
Saltò fuori dal letto e si sbrigò a vestirsi. I suoi indumenti erano semplici, tinta unita e rattoppati in alcuni punti. Alcuni erano stati di suo padre e non gli calzavano benissimo dato che, a sedici anni, Devin era ancora molto più snello di lui; non era più robusto della media per un ragazzo della sua età, benché fosse un poco più alto. Si scansò i capelli scuri dagli occhi con le mani, che avevano la loro parte di piccoli segni da bruciatura e tagli derivanti dalla Casa delle Armi, consapevole che sarebbe stato peggio quando fosse cresciuto. Il Vecchio Gund riusciva a malapena a muovere alcune dita, quel lavoro duro gli aveva succhiato via troppo.
Devin si vestì e andò di fretta nella cucina del cottage della sua famiglia. Si sedette a tavola e mangiò dello stufato insieme a sua madre e suo padre. Fece la scarpetta con un pezzo di pane duro, conscio che, nonostante fosse roba povera, ne aveva bisogno, data la dura giornata di lavoro che lo attendeva alla Casa delle Armi. Sua madre era una donna minuta e scattante; appariva così fragile accanto a lui che sembrava potesse rompersi da un momento all’altro sotto al carico di lavoro che svolgeva ogni giorno, nonostante non accadesse mai.
Anche suo padre era più basso di lui, ma robusto, muscoloso e duro come la pietra. Le sue mani erano come martelli e i suoi avambracci erano ricoperti di tatuaggi che accennavano ad altri luoghi, dal Regno del Sud alle terre d’oltremare. C’era persino una piccola mappa lì, che esibiva entrambe le terre, ma anche l’isola di Leveros e il continente di Sarras, dall’altra parte del mare.
“Perché mi stai fissando le braccia, figliolo?” chiese suo padre brusco. Non era mai stato un uomo molto bravo a dimostrare affetto. Anche quando Devin aveva ottenuto il lavoro alla Casa e persino quando si era mostrato capace di fabbricare armi tanto bene quanto i migliori maestri, suo padre si era limitato ad annuire.
Devin nutriva un desiderio disperato di raccontargli il suo sogno, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a evitare. Suo padre lo avrebbe denigrato, in preda alla gelosia.
“Guardavo solo un tatuaggio di cui non mi ero accorto,” rispose. Di solito, suo padre portava le maniche lunghe e Devin di rado trascorreva con lui abbastanza tempo per osservarlo. “Perché questo raffigura Sarras e Leveros? Ci siete stato quando eravate un…”
“Non sono affari tuoi!” scattò suo padre, e la sua rabbia era del tutto fuori luogo rispetto a quella semplice domanda. Si tirò giù rapido le maniche, allacciandosele ai polsi, in modo che Devin non potesse più vedere. “Ci sono delle cose che non devi chiedermi!”
“Mi dispiace,” disse Devin. C’erano dei giorni in cui a malapena sapeva cosa dirgli; giorni in cui a malapena si sentiva suo figlio. “Devo andare al lavoro.”
“Così presto? Stai andando di nuovo a fare pratica con la spada, non è vero?” chiese suo padre. “Stai ancora cercando di diventare un cavaliere.”
Sembrava adirato al riguardo e Devin proprio non riusciva a capirne il motivo.
“Sarebbe una cosa così terribile?” gli domandò con esitazione.
“Resta al tuo posto, ragazzo,” sputò fuori suo padre. “Non sei un cavaliere, ma solo un plebeo... come tutti noi.”
Devin ingoiò una risposta irosa. Mancava ancora almeno un’ora prima che dovesse andare al lavoro, ma sapeva che restare significava rischiare una discussione, come tutte quelle che avevano avuto prima.