La Corona Bronzea. Stefano Vignaroli
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Gualtiero Jacobacci non aveva perso la testa per nessuna donzella, né giovane, né attempata che fosse. Si era soffermato ad ammirare la splendida facciata del Duomo, non ancora terminata, e aveva avuto nostalgia di quei luoghi, in cui aveva vissuto la sua infanzia. In vita sua non aveva mai visto la cattedrale libera dalle impalcature. Sapeva che la costruzione era stata avviata oltre duecento anni prima, ma ora i palchi erano rimasti solo sulla facciata per consentire agli artisti di portare a termine le raffinate decorazioni che l’avrebbero abbellita e resa famosa nei secoli a venire. Approfittò del fatto che la Curia vescovile era libera, in quanto il Cardinale Alessandro Cesarini, Vescovo di Anagni e Orvieto, era in ritiro obbligato a Roma per partecipare al conclave, e si fece ospitare dalla comunità ecclesiastica locale, iniziando anche a celebrare la Santa Messa all’interno dell’incompiuta cattedrale. Tutto aveva in mente, insomma, tranne che di raggiungere Jesi, la sede che gli era stata assegnata dal Camerlengo. La pacchia non sarebbe durata a lungo, in quanto prima o poi il nuovo Papa sarebbe stato eletto e il Cardinale Cesarini sarebbe rientrato in sede. Ma Gualtiero non voleva pensarci. Carpe diem, diceva tra sé e sé, facendo propria la citazione di Orazio. Cogliamo l’attimo e godiamoci questo bel periodo. Quando sarà il momento vedremo il da farsi! Magari, quando arriverà, potrei proporre ad Alessandro Cesarini uno scambio: io qua e lui a Jesi. Jesi, come tutta la Marca anconitana, è una sede ambita per un alto prelato. Le campagne sono ricche e la Chiesa vuole a tutti i costi riportare quei territori sotto la propria ala in maniera definitiva, dando un taglio ai vecchi retaggi di Comuni, Signorie e Nobiltà locale. Un ambizioso come Cesarini non saprà certo dire di no alla mia offerta. E io potrò godermi la vecchiaia nel mio paese d’origine.
Finalmente, dopo oltre un mese di fumate nere, il 9 gennaio 1522 dal camino uscì la fumata bianca. Il Camerlengo tirò il sospiro di sollievo e si precipitò all’interno dell’ala in cui si svolgeva il conclave per assolvere ai suoi doveri di rito. Gli sembrava che fosse passata un’eternità dal giorno in cui era morto Leone X. Lo aveva trovato proprio lui, riverso sul tavolo in cui stava mangiando. Aveva chiamato le guardie e aveva fatto ricomporre il corpo nel letto, poi aveva picchiato con un martelletto il cranio del Santo Padre, per assicurarsi che il corpo non rispondesse più con alcun riflesso, né volontario, né involontario che fosse. Quando gli arti, gambe e braccia, furono diventati rigidi, aveva provveduto a chiamare tre volte il Papa con il nome di battesimo: «Giovanni… Giovanni… Giovanni!». Non avendo ottenuto risposta, aveva provveduto a dichiarare ufficialmente morto il Santo Padre. Aveva fatto allestire la camera ardente e aveva organizzato il rito funebre, al termine del quale Papa Leone X avrebbe raggiunto i suoi predecessori, nei sotterranei della basilica eretta sopra la tomba di San Pietro. Dopo di che aveva convocato il Conclave, ma si era accorto che la sua posizione era ritenuta molto scomoda da parte di una certa fazione dei partecipanti al Conclave, quelli più vicini alla famiglia De’ Medici. Lui era stato sempre il Cardinale più vicino al Papa, ma notoriamente faceva parte della stessa famiglia di Giovan Battista Cybo, che aveva occupato il soglio pontificio fino al 1492 col nome di Innocenzo VIII. Le male lingue, dal momento che era lui responsabile della sicurezza del Papa e tutti i cibi che arrivavano sulla tavola del Santo Padre dovevano essere da lui approvati, avevano ventilato che lui stesso potesse essere il responsabile dell’inaspettata e prematura morte di Leone X. Poteva infatti avere benissimo avvelenato gli alimenti, con l’intento di aspirare al pontificato e riportare di nuovo alla massima carica un appartenente alla famiglia genovese. Innocenzo sapeva benissimo di essere innocente e di non aver perpetrato alcuna congiura ai danni del suo beneamato Papa. Giovanni De’ Medici soffriva di cuore fin da quando era ragazzo e, proprio per questo non si era dedicato mai alle armi. Quindi nessuno lo aveva avvelenato, aveva avuto un collasso ed era morto di morte naturale, anche se improvvisa. Il fatto di autonominarsi Camerlengo aveva in parte allontanato i sospetti da lui, in quanto non sarebbe stato eleggibile come Papa, ma non del tutto. Giulio De’ Medici e altri tre o quattro Cardinali continuavano a guardarlo in cagnesco, ma lui rispondeva a quelle provocazioni con la migliore delle difese: il silenzio. Certo, quei tre mesi non erano stati facili, ma era riuscito a non porgere mai il fianco ai suoi nemici. Non una parola era mai uscita dalla sua bocca, che accusasse il Medici di invidia o di arrivismo. Aveva continuato a fare il suo dovere come nulla fosse. Ma ora, mentre saliva le scale col fiato in gola, il timore che il nuovo eletto fosse proprio il Medici lo attanagliava. Di certo, questi avrebbe voluto in qualche modo vendicare la morte prematura del familiare. E già Innocenzo si immaginava con la testa appoggiata a un ceppo in attesa della scure che, con un colpo secco, l’avrebbe fatta volare via dal resto del suo corpo. Quando aprì la busta dove era scritto il nome del nuovo pontefice, tirò il secondo sospiro di sollievo nel giro di pochi minuti.
Il Camerlengo si affacciò al terrazzo che dava sul piazzale sottostante e gridò, con quanto fiato aveva in gola, rivolto ai fedeli assiepati in curiosa attesa:
« Nuntio vobis gaudium magnum! Habemus Papam, eminentissimum et reverendissimum dominum Adrianus Florentz, qui sibi imposuit nomen Adrianus sextus. »
Voci e acclamazioni si levarono dalla Piazza sottostante, in attesa che il nuovo Papa si facesse vedere e parlasse alla folla dei fedeli. Mentre Innocenzo aiutava il nuovo Papa a vestire i paramenti sacri di rito, nella sua mente i pensieri scorrevano veloci. Questo Adriano VI non durerà molto, prima che qualcuno della famiglia De’ Medici ci metta mano. Ma che duri un mese, un anno o un secolo, nessuno potrà più accusare me. Da domani Innocenzo Cybo se ne ritorna a Genova.
Come tutti gli altri, anche il Cardinale Alessandro Cesarini fece i bagagli per ritornare nella sua sede, a Orvieto. Giuntovi il quattro marzo dell’anno del Signore 1522, lì per lì rimase un po’ interdetto dal fatto che la sua sede vescovile fosse stata arbitrariamente occupata dal suo collega, ma all’udire la proposta di quest’ultimo quasi non riusciva a credere alle sue orecchie. Lui che avrebbe fatto carte false per avere la Curia Vescovile di Jesi, lasciata vacante dal Cardinal Baldeschi, se la vedeva offrire su un piatto d’argento da chi ne era stato prescelto come titolare, solo perché legato ai luoghi in cui aveva trascorso l’infanzia. Incredibile, ma vero! Un’occasione di certo da non lasciarsi scappare. Suggellato il patto con lo Jacobacci, Alessandro Cesarini, desideroso comunque di riposarsi per qualche giorno, inviò un messaggero a Jesi, per preannunciare il suo arrivo e il suo insediamento alle autorità di quella città. Il messaggero giunse a Jesi solo il 12 Marzo, e il Consiglio Generale della Città, riunito per l’occasione nella Sala Maggiore del Palazzo del Governo e presieduto dal nobile Fiorano Santoni, prese atto della nomina – anche se il Cardinal Jacobacci sarebbe stato più gradito – e deliberò anche di riconoscere al Cesarini un vitalizio di 25 fiorini al mese. Tutto questo quando già il Cardinale era alle porte della città, per cui non si fece neanche in tempo a preparare una degna accoglienza al nuovo Vescovo, che si trovò a entrare in una città del tutto indifferente al suo arrivo. Il Cesarini non rimase deluso solo dell’accoglienza, ma anche e soprattutto del fatto di trovare città e contado in condizioni ben diverse da quello che si aspettava. Dopo il sacco subito dalla città nel 1517, erano seguiti alcuni anni di malgoverno da parte del Cardinal Baldeschi, che avevano ridotto la zona a condizioni di miseria mai viste a memoria d’uomo. Oltre ai danni e alle angherie che erano stati portati dagli eserciti invasori, la peste era tornata come un incubo a terrorizzare la popolazione. E così il Cesarini, che aveva ancora molti interessi nella zona di Anagni e Orvieto, ben presto iniziò a passare gran parte del suo tempo lontano da Jesi, adducendo come scusa i suoi assillanti impegni ecclesiastici presso la sede Papale , e lasciando in sua vece aspri vicegovernatori, che sapevano solo essere crudeli e tiranni nei confronti della popolazione.
Lucia si era data da fare, e non poco, per portare conforto agli ammalati di peste. Il morbo era giunto a Jesi con una cassa di canapa, proveniente dai mercati dell’oriente,