Il Volto della Rabbia. Блейк Пирс

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Il Volto della Rabbia - Блейк Пирс Un Thriller di Zoe Prime

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style="font-size:15px;">      Zoe si strofinò gli occhi con la mano e prese una birra dal frigo. La aprì e fece un lungo sorso, bevendone il più possibile in una volta sola. Quasi esattamente la metà, notò, stimando il volume con i propri occhi. Si voltò per guardare il divano ma non si mosse; l’appartamento adesso le sembrava eccessivamente angusto, uno spazio troppo ristretto per i suoi pensieri.

      Non poteva restare qui: non con tutti quei numeri, per tutto il resto della serata. Non poteva sentirli rimbombare inutilmente nella sua testa. Erano ovunque, e benché sapesse che l’avrebbero aspettata anche lì fuori, almeno quelli sarebbero stati nuovi.

      Dopo aver sentito l’ultimo passo della dottoressa Applewhite, attese diciassette minuti per concederle il tempo necessario per uscire dal quartiere, bevendo il resto della seconda birra e gettando la bottiglia nella spazzatura, dopodiché si infilò le scarpe.

***

      Zoe inciampò, quasi cadendo a causa di una pietra smossa sul ciglio del marciapiede. Guardando con più attenzione si rese conto che quella pietra in realtà era parte del marciapiede stesso, una piastrella male inserita in fase di costruzione. Non avrebbe dovuto esserci. Zoe si rimise dritta, cercando di evitare di inciampare nuovamente.

      Alzò lo sguardo e vide che aveva raggiunto il solito posto in cui finiva quando andava in giro di notte dopo aver bevuto. In questo caso anche mentre beveva, dato che aveva portato con sé il resto della confezione da sei e ormai era rimasta a mani vuote. Non era stata una camminata tanto breve, il che voleva dire che era venuta intenzionalmente da queste parti, anche se non riusciva a ricordare di aver preso quella decisione. Eppure era lì, di fronte a quella stessa casa.

      La casa davanti alla quale normalmente Zoe non si sarebbe mai permessa di fermarsi. Non era una coincidenza che ci venisse soltanto di notte, avvolta dall’oscurità, e quando l’alcol le placava un po’ il nervosismo. In questo modo era altamente improbabile che la vedessero, e lei poteva restarsene lì a crogiolarsi nei suoi sensi di colpa come una vigliacca, senza dover fare nulla.

      Non era certo quello che voleva. Zoe desiderava più di ogni altra cosa avvicinarsi a quella casa e bussare alla porta. Voleva che ad aprirla fosse l’Agente Shelley Rose, con il suo chignon biondo perfettamente sistemato e il suo rossetto rosa privo di qualsiasi sbavatura. Voleva che Shelley le sorridesse e le dicesse qualcosa del tipo, “Sei pronta, Z?”; voleva che salissero su un aereo e andassero a risolvere un caso di omicidio insieme, e che andasse tutto bene.

      Ma non sarebbe successo, perché Shelley non era più lì. Shelley ormai era sotto terra. Zoe aveva assistito al suo funerale, aveva visto calare la bara nella fossa appena scavata mentre suo marito e sua figlia erano fermi lì, accanto alla tomba, a guardare. Avrebbe voluto dire qualcosa in quel momento, ma non c’era riuscita. Voleva dire qualcosa adesso, ma le risultava ancora impossibile. E in fondo, non meritava quel sollievo.

      Il marito di Shelley era rimasto senza una moglie. Sua figlia era rimasta senza una madre. Zoe avrebbe potuto bussare alla porta e dir loro che le dispiaceva, che era stata tutta colpa sua, che non era stata in grado di impedirlo. Avrebbe potuto assumersi tutta la responsabilità, prendere sulle spalle il peso del loro odio o qualsiasi cosa volessero lanciarle addosso, purché potessero sentirsi meglio.

      Ma che fosse per il loro o per il suo stesso bene, non poteva farlo. Non era soltanto una questione di cosa meritasse. E neanche una questione di coraggio. Zoe guardò la casa e cercò di pensare a cosa avrebbe potuto dire loro, ma tutto ciò a cui riusciva a pensare era che la casa aveva cinque finestre che si affacciavano sulla strada, ciascuna suddivisa in quattro vetrate; la porta era alta un metro e novantotto centimetri; il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso era lungo un metro e ottantatre centimetri e aveva dodici lastre per pavimentazione, ciascuna delle quali aveva una lunghezza di quindici virgola ventiquattro centimetri, o sei pollici, o zero virgola centosessantasette iarde, o…

      Zoe non aveva niente da dire loro. Aveva soltanto i suoi numeri. Si allontanò da quella casa conosciuta e da tutte le sue dimensioni, costringendosi a tornare verso casa. Ogni volta che finiva qui, si sentiva ancora peggio di quando era uscita. Eppure i suoi piedi continuavano a portarla in questa direzione.

      Avrebbe dovuto smettere completamente di uscire. Non valeva la pena rischiare.

      E Zoe non riusciva a vedere alcuna via d’uscita da tutto questo disastro che lei stessa aveva creato. Poteva soltanto restarsene seduta in casa e lasciare il telefono spento, ignorare le chiamate che sarebbero arrivate una volta terminato il periodo di sospensione e lasciare che tutto svanisse come nebbia nei ricordi di qualcun altro.

      CAPITOLO DUE

      Elara Vega guardò il suo orologio e inarcò un sopracciglio, un gesto rivolto solo a se stessa. In fin dei conti era sola, lì; i suoi colleghi erano andati via alle sei in punto, al termine della giornata lavorativa. Ma il lavoro era tutto per Elara, lo era sempre stato.

      No, non era proprio così, pensò, mentre raccoglieva le sue cose e ordinava gli appunti per il mattino seguente. C’era stato un periodo in cui ad avere importanza erano state altre cose. Aveva cresciuto suo figlio, e per un certo tempo c’era stato anche suo marito, dal quale però aveva divorziato vent’anni fa. Due anni dopo, suo figlio si era trasferito in un’altra città per frequentare il college e da allora era rimasta da sola. Ma le andava bene così: soltanto lei, le stelle e i pianeti, eterni seppur fugaci.

      Elara guardò con attenzione quella sua scrivania così ordinata, assicurandosi che non ci fosse qualcosa fuori posto. In cinquantanove anni di vita aveva imparato che tenere le cose in ordine era molto meno faticoso che sistemare un pasticcio.

      Soddisfatta, Elara prese il suo cappotto dallo schienale della poltrona e lo indossò, dirigendosi verso la porta. Era ancora intenta a raddrizzare il colletto quando arrivò nell’atrio, dove un inserviente stava lavando i pavimenti. Le dispiaceva sempre quando restava fino a tardi e intralciava il lavoro degli addetti alle pulizie, camminando sul pavimento appena lavato.

      Il planetario era organizzato con gli uffici, le stanze del personale e le sale eventi che si diramavano dall’anfiteatro centrale, che a sua volta conduceva direttamente all’atrio principale e da lì alle porte d’ingresso. Elara uscì in quello spazio buio, sempre un po’ inquietante di notte quando l’intero edificio era avvolto dalle tenebre e i posti a sedere erano vuoti. Le ricordavano sempre quei film apocalittici in cui i personaggi si imbattevano in qualcosa di toccante: un teatro abbandonato, i rivestimenti delle poltrone che si rovinavano lentamente, le apparecchiature di proiezione ormai in rovina. Si incamminò velocemente verso la tranquillità dell’atrio e dell’aria frizzante della sera.

      Era arrivata a metà strada quando sentì un ronzio familiare: il suono meccanico del proiettore che entrava in funzione. Elara tentennò e si guardò attorno perplessa e meravigliata. Le stelle e i pianeti si erano improvvisamente illuminati sulla sua testa, volteggiando fino a collocarsi ciascuno al proprio posto per l’inizio della presentazione. L’aveva visto centinaia di volte; aveva persino preso parte alla verifica dell’accuratezza delle nuove mappe celesti qualche anno fa, quando erano state aggiornate, ma trovarsi nel bel mezzo di quello spettacolo in un modo così insolito era qualcosa di completamente nuovo per lei. Si sentiva come se potesse allungare una mano e toccare le stelle…

      Ma chi era stato ad accendere il proiettore? Tutti i suoi colleghi erano tornati a casa da un pezzo e non avrebbe dovuto essere acceso a quest’ora. La musica d’orchestra iniziò a suonare, talmente forte da coprire tutto il resto. Elara aggrottò la fronte e iniziò a voltarsi, pensando che sarebbe stato il caso di dare un’occhiata alla sala di proiezione…

      Invece si ritrovò a fissare il pavimento, in ginocchio. Com’era finita in quella posizione? Appena un minuto prima, era stata… ma avvertì un dolore alla nuca, ricordò un impatto fragoroso, più assordante della musica stessa,

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