Il Volto della Rabbia. Блейк Пирс
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Elara lottò per rialzarsi, per impedire ai suoi piedi di scivolare su quel pavimento liscio, ma niente sembrava funzionare; la musica era talmente assordante, le luci così accecanti. Qualcosa di caldo le stava colando dalla fronte, finendole negli occhi. Si ritrovò a guardare in basso, verso qualcosa di rotondo, di metallico, che conteneva qualcosa che scintillava e si muoveva, una superficie che rifletteva la luce, e poi…
L’acqua fredda fu uno shock per il suo corpo e la fece ansimare ad alta voce: quella fu l’unica reazione che riuscì a comprendere con lucidità da quando aveva visto accendersi il proiettore. Peccato che fosse anche una reazione del tutto inappropriata in questo caso: sentì l’acqua – e non l’aria – invaderle la bocca e scendere in gola, provando una sensazione di panico che dissipò le nebbie della confusione e del dolore alla testa. Capì che doveva assolutamente uscire da lì, scappare, tornare in superficie, tornare a respirare.
Elara lottò con tutte le sue forze, aggrappandosi ai lati del secchio di metallo e sentendolo agitarsi sotto di sé, ma era tutto inutile. Sulle sue spalle c’era un peso che la teneva giù e le impediva di alzare la testa e uscire dall’acqua. La sua vista iniziò a oscurarsi; davanti ai suoi occhi comparvero minacciose macchie nere, che lottavano e danzavano con gli sprazzi di luce che filtravano nell’acqua, mentre lei si agitava nel disperato tentativo di sollevare la testa.
Elara cercò con un ultimo sforzo di lanciarsi all’indietro, di ribaltare il secchio, ma la sua gola era ormai in preda agli spasmi e la vista si stava annebbiando del tutto, e capì di non avere più speranze. Una contrazione dolorosa al petto la costrinse a cercare di respirare ancora una volta, ma non ci riuscì. E infine calò un’oscurità talmente assoluta da non permetterle di vedere più nulla, neanche i bagliori di stelle lontane milioni di anni luce, che morivano in un’altra galassia o che forse erano già morte.
CAPITOLO TRE
Zoe dovette fermarsi due volte mentre camminava in cucina, prendendosi la testa tra le mani e ansimando. Aveva bisogno di reidratarsi. Si voltò verso la parte anteriore della stanza e le finestre, ma se ne pentì immediatamente. Non aveva tirato le tende ieri sera, e ora il sole della tarda mattinata stava filtrando attraverso le vetrate, inondando la stanza con un bagliore tale da farle rimbalzare il dolore in tutto il cranio.
I postumi della sbornia aggiungevano la beffa al danno. Ieri sera aveva consumato circa cinquantasei millilitri di alcol e il suo organismo avrebbe dovuto smaltirlo entro sette ore. Ma lei era andata a letto tardi, senza neanche togliere le scarpe, ed era altamente possibile che avesse continuato a bere una volta tornata a casa, anche se non lo ricordava. In ogni caso, la sua testa stava pulsando e desiderava soltanto tornare a dormire.
Sulla sua scala personale, il dolore era probabilmente un sei. Il rumore era persino peggiore: Zoe odiava la città durante il giorno. Anche rinchiusa nel suo appartamento, con le finestre chiuse, riusciva a sentirlo: il flusso costante di pneumatici e motori sull’asfalto, che le indicava la velocità media del traffico sulle strade più vicine; l’inquilina del piano di sopra che camminava con un tonfo pesante, comunicando a Zoe che si stesse dirigendo verso il frigo, perché la disposizione dei loro appartamenti era la stessa e la donna aveva fatto sette passi verso sud. E poi era tornata indietro, sette passi in direzione nord.
Gli uccelli cinguettavano tra loro, vivendo intere vite in questa città nonostante non ci fossero molti alberi. Il ritmo dei loro richiami prudeva nella testa di Zoe: un richiamo con tre cinguettii, un altro con tre cinguettii e un altro ancora, sempre con tre cinguettii. Sempre lo stesso. Poi un po’ di silenzio prima che ricominciassero da capo. L’unica variazione fu quando uno degli uccelli lanciò un cinguettio un po’ più rauco prima di tornare al solito ritmo.
“Zitti, dannati uccelli,” disse ad alta voce Zoe, coprendosi il viso con le mani. Un delicato miagolio vicino alla porta le fece aprire gli occhi e vide Pitagora, il suo birmano, che la osservava con uno sguardo di rimprovero.
Zoe gemette. Quantomeno le restava la routine della sua vita. I gatti avevano ancora bisogno di mangiare. Tirò fuori la latta dalla credenza e l’agitò, fino a quando il rumore metallico non le fece capire che aveva estratto centoventi pezzi singoli di cibo per gatti essiccato. Pitagora ed Eulero si precipitarono immediatamente verso le rispettive scodelle, aggredendole, mentre lei li osservava e prendeva un antidolorifico con un bicchiere d’acqua.
Zoe si sforzò di bere fino all’ultima goccia, riempiendo subito dopo il bicchiere. Ne servivano altri tre per far sparire il mal di testa, ma si sentiva già meglio.
Un forte rumore alla porta la fece trasalire talmente tanto che le cadde una grossa goccia d’acqua sul pavimento.
Non adesso, dottoressa, pensò Zoe, ma qualcosa non le quadrava. Sembrava che il colpo fosse partito da un pugno più pesante. Era anche più deciso rispetto a quello della dottoressa Applewhite, e non seguiva il solito schema. Toc-toc-toc: mancava il quarto toc ed era stato fatto una sola volta. Zoe pensò che potesse trattarsi di un uomo. Strano.
Forse l’FBI le aveva inviato tutto quello che aveva lasciato al J. Edgar Hoover in un pacco ed era necessario che firmasse. Sì, era probabile. Forse non del tutto, ma abbastanza da indurla a muoversi e andare a dare un’occhiata.
Zoe aprì la porta, lasciando che la catenina si allungasse completamente prima di vedere che si trattava dell’Agente Speciale al Comando Leo Maitland, il suo comandante. Era fermo davanti alla porta con le braccia dietro la schiena e un’espressione gentile sul viso. Non era per forza un buon segno. Maitland aveva un sacco di cose da fare e non sprecava il suo tempo in visite a domicilio. Qualcosa in quello sguardo – oltre alla sua istintiva obbedienza nei confronti di un suo superiore – spinse Zoe a chiudere la porta, sganciare la catena e aprire di nuovo per trovarsi faccia a faccia con lui.
Si pentì di non aver scelto un abbigliamento più adatto o di non aver pettinato i capelli, ma ormai era inutile piangere sul latte versato.
“Agente Prime.” La voce di Maitland era simile a un tuono. Con il suo metro e novanta di altezza la sovrastava di tredici centimetri, una differenza che ora stava sfruttando per guardarla dall’alto, proprio come un insegnante guarda un ragazzino ribelle.
“Signore,” disse Zoe, cercando di parlare con voce ferma. Non aveva voluto occuparsi di nessuna questione di lavoro. Non quando i numeri erano ancora dappertutto: persino adesso stava misurando gli angoli nella postura militare di Maitland, notando che il petto di centoquattordici centimetri e i bicipiti di trentotto centimetri dell’uomo non si erano affatto ridotti dall’ultima volta in cui era stata nel suo ufficio.
Da quando le aveva detto di tornare a casa in licenza, perché aveva visto il cadavere della sua partner e aveva preso a pugni un tizio senza mostrare alcuna intenzione di fermarsi.
“Vengo direttamente dal Quartier Generale. Volevo parlarle di persona,” disse. La sua voce era profonda. “Le dispiace se entro?”
Zoe lo guardò per un istante senza capire. Cosa voleva dire quel tono? Era arrabbiato con lei? Divertito? Deluso? Cosa? Riusciva solamente a sentire i sessantuno decibel, le tredici parole, la cadenza e il ritmo, il flusso di sillabe. Ma si fece comunque da parte e indicò il divano, e Maitland le passò accanto, guardandosi attorno come se volesse fare attenzione a dove mettesse i piedi.
Non per evitare di calpestare