Marocco. Edmondo De Amicis
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Oh nella vita
Qualche delitto incognito ne pesa!
Qualche cosa si espia!
La sola cosa mangiabile era il montone allo spiedo. Nemmeno il cuscussu, il piatto nazionale dei mori, fatto con grano tritato della grossezza della semola, cotto a vapore e condito con latte o brodo,—perfido simulacro di risotto—, nemmeno questo famoso cuscussu, che piace a molti europei, mi è riuscito d’inghiottirlo senza cangiar colore. E ci fu qualcuno di noi che, per punto, mangiò di tutto! cosa consolante la quale dimostra che in Italia ci sono ancora dei grandi caratteri. A ogni boccone, il nostro ospite c’interrogava umilmente collo sguardo, e noi, stralunando gli occhi, rispondevamo in coro:—Eccellente! Squisito!—e buttavamo giù subito un bicchier di vino per ravvivarci gli spiriti. A un certo punto, scoppiò nel cortiletto una musica bizzarra che ci fece balzar tutti in piedi. Erano tre sonatori, venuti, come vuole il costume moresco, a rallegrare il banchetto: tre arabi dai grandi occhi e dal naso forcuto, vestiti di bianco e di rosso, uno colla tiorba, l’altro col mandolino, il terzo col tamburello; tutti e tre seduti fuori della porta della nostra stanza, vicino a una nicchietta dove avevano deposto le pantofole. Tornammo a sedere e i piatti ricominciarono a sfilare (ventitrè, comprese le frutta, se ben mi ricordo) e i nostri volti a contorcersi e i turaccioli a saltare in aria. A poco a poco le libazioni, l’odore dei fiori, il fumo dell’aloé che ardeva nei profumieri cesellati di Fez, e quella bizzarra musica araba, che a furia di ripetere il suo lamento misterioso, s’impadronisce dell’anima con una simpatia irresistibile; ci diedero per qualche momento una specie di ebbrezza taciturna e fantastica, durante la quale ognuno di noi credette di sentirsi il turbante sul capo e la testa d’una sultana sul cuore. Finito il pranzo, tutti si alzarono e si sparpagliarono per la sala, per il cortile, per il vestibolo, a guardare e a fiutare da ogni parte con una curiosità infantile. In ogni angolo oscuro si rizzava, come una statua, un arabo ravvolto nella sua cappa bianca. La porta della camera nuziale era stata chiusa colle cortine, e per lo spiraglio si vedeva un gran movimento di teste bendate. Alle finestrine superiori apparivano e sparivano dei lumi. Si sentivano fruscii e voci di gente nascosta. Intorno e sopra di noi ferveva una vita invisibile, la quale ci avvertiva che eravamo dentro le mura, ma fuori della casa; che la bellezza, l’amore, l’anima della famiglia s’era rifugiata nei suoi penetrali; che lo spettacolo eravamo noi e che la casa rimaneva un mistero. A una cert’ora uscì da una porticina la governante del Ministro, ch’era stata a veder la sposa, e passando per andarsene, esclamò:—Ah! se vedessero, che bottone di rosa! Che creatura di paradiso!—E intanto la musica continuava a suonare, e l’aloé continuava ad ardere, e noi seguitavamo a girare e a fiutare, e la fantasia lavorava, lavorava. E lavorava ancora, e più che mai, quando usciti da quell’aria piena di luce e di profumi, infilammo una viuzza solitaria e tenebrosa, al lume d’una lanterna, in mezzo a un silenzio profondo.
Una sera si sparse la notizia, da molto tempo aspettata, che il giorno dopo sarebbero entrati in città gli Aïssaua.
Gli Aïssaua sono una delle principali confraternite religiose del Marocco, fondata, come le altre, per ispirazione di Dio, da un Santo chiamato Sidì-Mohammed-ben-Aïssa, nato a Mechinez due secoli sono; la vita del quale è una lunga e confusa leggenda di miracoli e d’avventure favolose, variamente raccontata. Gli Aïssaua si propongono di ottenere dal cielo una protezione speciale, pregando continuamente, esercitando certe pratiche loro proprie, tenendo vivo nel loro cuore, piuttosto che il sentimento della fede, un’esaltazione, una febbre religiosa, un furore divino, che prorompe in manifestazioni stravaganti e feroci. Hanno una grande moschea a Fez, che è come la casa centrale dell’ordine, e di qui si spandono ogni anno a turbe, in tutte le province dell’impero, dove raccolgono intorno a sè, per celebrare le loro feste, i confratelli sparsi per le città e per le campagne. Il loro rito, simile a quello dei dervis urlanti e giranti dell’Oriente, consiste in una specie di danza sfrenata accompagnata da salti, scontorcimenti e grida, nella quale vanno via via infuriando e inferocendosi finchè, perduto ogni lume, stritolano legno e ferro coi denti, si brucian le carni con carboni accesi, si straziano coi coltelli, inghiottiscono fango e sassi, sbranano animali e li divoran vivi e grondanti di sangue, e cadono a terra senza forze e senza ragione. A questi eccessi non giunsero gli Aïssaua che io vidi a Tangeri, e credo che ci giungano raramente, e assai pochi, se pure qualcuno vi giunge ancora; ma fecero però abbastanza per lasciarmi nell’animo un’impressione incancellabile.
Il Ministro del Belgio c’invitò ad assistere allo spettacolo dal terrazzo di casa sua, che guarda sulla strada principale di Tangeri, dove sogliono passare gli Aïssaua per andare alla moschea. Dovevano passare alle dieci della mattina, scendendo dalla porta del Soc di Barra. Un’ora prima, la strada era già piena di gente e le case coronate di donne arabe ed ebree, vestite dei loro colori vivissimi, che davano alle terrazze bianche l’aspetto di grandi ceste di fiori. All’ora fissata, tutti gli occhi si voltarono verso la porta, all’estremità della strada, e pochi minuti dopo comparvero i forieri