Marocco. Edmondo De Amicis

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Marocco - Edmondo De Amicis

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dovessi andare o no a vedere l’incantatore dei serpenti; ma la curiosità vinse il ribrezzo. Questi così detti incantatori appartengono alla confraternita degli Aissaua e dicono di ricevere dal loro patrono Ben-Aïssa il privilegio di poter sfidare senza pericolo la morsicatura di qualunque animale più velenoso. Molti viaggiatori, infatti, degni di pienissima fede, assicurano d’aver visto parecchi di costoro farsi morsicare a sangue, senz’effetto venefico, da serpenti di cui un momento dopo venne esperimentato il veleno potentissimo sopra altri animali; e dicono di non essere riusciti a scoprire di che mezzo si valessero quei destri ciarlatani per rendere innocua la morsicatura. L’Aissaua che io vidi, dava uno spettacolo orribile, ma incruento. Era un arabo piccolo, tarchiato, col viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un re merovingio e vestito d’una specie di camicia azzurrina che gli scendeva fino ai piedi. Quando m’avvicinai, saltellava grottescamente intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la bocca d’un sacco, dov’erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava, accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s’inginocchiò davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo strinse sotto un’ascella. L’orribile bestia rizzava la testa schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l’espressione d’una vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia che gli fremeva nel corpo; ma non m’accorsi che mordesse mai la mano in cui era imprigionato. Quando fu stanco di quel lavoro, l’Aissaua strinse il serpente per la nuca, gli aggiustò un piccolo ferro nella bocca in modo da fargliela rimanere aperta, e lo mostrò così agli spettatori più vicini, perchè osservassero i denti; osservazione affatto superflua, se pure la sostanza venefica rimaneva, perchè non v’era stata morsicatura. Dopo ciò afferrò il serpente con due mani, si mise la coda in bocca e cominciò a menar le mandibole: la bestia si scontorceva furiosamente; io me n’andai inorridito.

      In quel momento comparve nel Soc il nostro Incaricato d’affari. Lo vide dall’alto della collina il vice-governatore, gli corse incontro, e lo condusse sotto la sua tenda, dove si radunarono tutti i membri della futura carovana, io compreso. Allora accorsero suonatori e soldati, si formò un grandissimo semicerchio di arabi davanti all’apertura della tenda, gli uomini dinanzi, il sesso gentile, a gruppi, di dietro; e cominciò un concerto indiavolato di danze, di canti, di grida, di fucilate, che durò più di un’ora, in mezzo a un denso nuvolo di fumo, al suono d’una musica spietata, fra gli strilli entusiastici delle donne e dei bambini, con paterna soddisfazione del vice-governatore e nostro vivo piacere. Prima che finissero, l’Incaricato d’affari mise qualchecosa di giallo nelle mani d’un soldato arabo, perchè lo portasse a chi aveva diretto lo spettacolo. Il soldato tornò poco dopo e riferì, tradotto in spagnuolo, il curioso ringraziamento del beneficato:—L’ambasciatore d’Italia ha fatto una buona azione; Allà benedica tutti i peli della sua barba!

      La feste durò fino al tramonto. Strana festa! Tre venditori d’acqua pura bastavano a soddisfare i bisogni di tutta quella folla immobile per una mezza giornata sotto i raggi del sole d’Affrica. Un marengo era forse il massimo del denaro messo in giro da quello straordinario concorso di gente. I soli piaceri erano vedere ed udire. Non uno scandalo amoroso, nè un ubbriaco, nè una coltellata! Nulla di comune colle feste popolari dei paesi civili.

      Oltre a godere di tutti questi spettacoli, facevamo, io e i miei futuri compagni di viaggio, delle frequenti passeggiate nella campagna di Tangeri, che non è meno curiosa a vedersi che la città. Intorno alle mura si stende una cintura di giardini e di orti appartenenti la maggior parte ai ministri e ai consoli, quasi tutti trasandati; ma coperti d’una vegetazione meravigliosa. Sono lunghe file di aloè, simili a lancie gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve, poichè tale è la forma delle loro foglie; la punta delle quali è usata dagli arabi, colla fibra della foglia medesima, a cucire le ferite. Sono fichi d’India, kermus del Inde, come si chiamano in lingua moresca, altissimi, di foglie spesse un pollice, che sporgono sui sentieri fin quasi a impedire il passo; fichi comuni, all’ombra dei quali si potrebbero rizzare dieci tende; quercie, acacie, leandri, arbusti d’ogni forma, che intrecciano i loro rami coi rami degli alberi più alti, e formano coll’edera, le viti, le canne, le siepi, degli ammassi inestricabili di verzura, sotto i quali spariscono fossi e sentieri. In molti luoghi bisogna camminare a tentoni. Si passa da un podere all’altro a traverso le siepi sforacchiate o sopra le cancellate abbattute, in mezzo all’erbe e ai fiori che s’alzano fino alla cintura d’un uomo; e non si vede nessuno. Qualche casetta bianca, mezzo nascosta fra gli alberi, e qualche pozzo a ruota, dal quale, per mezzo di canaletti incrociati, si spande l’acqua per le terre, sono le sole cose che diano indizio di proprietà e di lavoro. Molte volte, se non fosse stato con me il capitano dello stato maggiore, che è una guida abilissima, mi sarei smarrito in mezzo a quella vegetazione scompigliata; e infatti ci occorreva spesso di chiamarci l’un l’altro, come in un labirinto, per non perderci di vista, e godevamo a tuffarci, a nuotare in quell’immenso verde, ad aprirci la via colle mani, coi piedi e colla testa, coll’allegra furia di selvaggi tornati dalla schiavitù alle loro foreste.

      Di là da questa cintura di orti e di giardini, non si trovano più nè alberi, nè case, nè siepi, nè alcun indizio di divisione della campagna. Sono colline, vallette verdi e piani ondulati dove pascola qualche raro armento, di cui non si vede il guardiano, e galoppa qualche cavallo sciolto. Una volta sola mi ricordo d’aver visto lavorare la terra. Un arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo, di forma bizzarra, costrutto forse come s’usavano quattromil’anni fa; il quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e d’erbaccie. Qualcuno mi assicurò d’aver visto più d’una volta attaccato all’aratro un asino e una donna, e questo può dare un’idea dello stato dell’agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l’erba per i pascoli il terz’anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei primi due. Malgrado questo, la terra s’impoverisce dopo pochi raccolti, e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte la semenza che vi si sparge.

      La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l’Ampelusium degli antichi, che forma l’estremità nord-ovest del continente africano: un monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle quali era consacrata ad Ercole: specus Herculi sacer. Sulla sommità di questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d’Europa. Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che manda il suo all’erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di lassù l’occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime acque del Mediterraneo, e l’immenso orizzonte dell’Atlantico, il mare delle tenebre, Bar-ed-Dolma, come lo chiamano gli arabi, che flagella i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino al capo d’Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle montagne di Ceuta, i septem fratres dei Romani; e lontano, vagamente, lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato Favola vile ai naviganti industri.

      In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di servi armati, il quale,

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