Marocco. Edmondo De Amicis
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Alle cinque in punto l’ambasciatore montò a cavallo e sulle terrazze delle Legazioni s’alzarono le bandiere in segno di saluto.
Preoccupato com’ero della mia cavalcatura, in quel tafferuglio pericoloso della partenza, non ricordo che confusamente la folla che ingombrava le strade, le belle ebree affacciate alle terrazze, e un ragazzo arabo che mentre uscivo per la porta del Soc, esclamò con un accento strano:—Italia!
Sul Soc si unirono a noi i rappresentanti di tutte le Legazioni, per accompagnarci, secondo l’uso, fino a qualche miglio da Tangeri; e prendemmo tutti insieme la via di Fez, confusi in una cavalcata rumorosa, davanti a cui sventolava la bandiera verde del Profeta.
HAD-EL-GARBÌA
Era una folla di ministri, di consoli, di dracomanni, di segretarii, di cancellieri, una grande ambasciata internazionale, che rappresentava sei monarchie e due repubbliche, composta per la maggior parte di gente che aveva girato mezza la terra. Fra gli altri, il console di Spagna, vestito del grazioso costume della provincia di Murcia, con un pugnaletto alla cintura; il console gigantesco degli Stati Uniti, antico colonnello di cavalleria, che s’alzava di tutta la testa al di sopra della comitiva, e cavalcava un bel cavallo arabo bardato alla messicana; il dracomanno della Legazione di Francia, un uomo di forme atletiche, piantato sopra un enorme cavallo bianco, col quale presentava in certi atteggiamenti i contorni fantastici e poderosi di un centauro; delle faccie inglesi, portoghesi, andaluse, tedesche. Tutti parlavano, ed era una conversazione in dieci lingue, accompagnata da risate, canterellamenti e nitriti. Davanti a noi cavalcava il portabandiera, seguito da due soldati della Legazione d’Italia; dietro venivano i cavalieri della scorta, guidati dal generale mulatto, coi fucili ritti sulle selle; dai lati uno sciame di servi arabi a piedi. Tutta questa comitiva, dorata dagli ultimi raggi del sole, presentava uno spettacolo così splendidamente pittoresco, che ognuno di noi lasciava trasparire sul volto la compiacenza d’essere una figura del quadro.
A poco a poco quasi tutti coloro che ci accompagnavano, si accomiatarono e tornarono a Tangeri; non rimasero più con noi che l’America e la Spagna.
La strada, per allora, non era delle peggio; la mia mula pareva la mula più docile dell’Impero; che cosa mi rimaneva a desiderare? Ma non c’è felicità intera sulla terra. Il capitano mi si avvicinò e mi diede una notizia spiacevole. Il vice-console, Paolo Grande, nostro compagno di tenda, era sonnambulo. Il capitano stesso l’aveva incontrato la notte prima, su per le scale della casa della Legazione, ravvolto in un lenzuolo, con un lume in una mano e una pistola nell’altra. I servi della casa, interrogati, avevano confermata la cosa. Dormire sotto la tenda con lui era pericoloso. Il capitano pregava me, poichè avevo maggiore famigliarità col vice-console, d’indurlo a rimettere a qualcuno le sue armi durante la notte. Io promisi di fare tutto il possibile.—Mi raccomando—; disse allontanandosi;—anche in nome del Comandante; si tratta di salvare la pelle.—Questa ci mancava!—pensai, e cercai subito il vice-console. Egli stesso mi venne accanto. Di domanda in domanda riuscii a sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da quel pensiero molesto.
Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati, serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere sull’orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune fucilate. Era un gruppo d’arabi che dalla sommità d’una collina salutavano l’ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta; cominciavamo a desiderare l’accampamento. La fame in qualcuno, in altri la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo un’altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro primo accampamento e lo salutammo con un grido.
Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare, di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa. Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati, cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente. Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V’erano quattro letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini, seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori italiani e un grande sventolatore all’indiana. Era un accampamento principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era posta fra quella dell’ambasciatore e quella degli artisti.
Un’ora dopo l’arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi. Eravamo sedici, compreso il console d’America coi suoi due figli e il console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a quella campagna deserta s’alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al sugo e del risotto alla milanese. L’autore, un grosso cuoco francese venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l’un dall’altro in italiano, in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si disputò sulla quistione d’Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla guerra carlista, sull’immortalità dell’anima, sulle proprietà del terribile cobra capello, l’aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al clamore della conversazione, mi disse nell’orecchio che mi sarebbe stato riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi scritto ch’egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest’occasione per pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un motivo dell’Italiana in Algeri, uscimmo dalla tenda per andar a dormire.
L’accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda dell’Ambasciatore, che s’era ritirato prima di noi, vegliava il fido Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto quella spina del sonnambulo!
Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi d’intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco,