Marocco. Edmondo De Amicis

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Marocco - Edmondo De Amicis

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regolarmente a Tangeri e a Gibilterra. Le istruzioni, infatti, che questo ministro riceve dal suo governo, benchè sieno molto semplici, sono tali da mettere nell’imbarazzo anche il più sottile diplomatico europeo. Un console francese le ha formulate con molta precisione:—a tutte le domande dei consoli, rispondere con promesse;—di queste promesse differire fino al più tardi possibile l’adempimento;—guadagnar tempo;—suscitare difficoltà d’ogni natura ai reclamanti,—fare in modo che, stanchi di reclamare, desistano;—cedere, se minacciano, il meno che si può;—se poi il cannone se ne immischia, cedere, ma non prima del momento supremo. Ma convien dire che dopo la guerra di Spagna, e particolarmente sotto il regno di Mulei-el-Hassen, le cose son molto cangiate.

      Salimmo alla Casba, dov’è la casa del ministro. Una schiera di soldati faceva ala davanti alla porta. Si attraversò un giardino, e s’entrò in una sala spaziosa, dove vennero incontro all’Incaricato d’affari il ministro degli esteri e il governatore di Tangeri.

      In fondo alla sala v’era un alcova con un sofà e alcune seggiole; in un angolo un letto modestissimo; sotto il letto, un servizio da caffè; le pareti bianche e nude; il pavimento coperto di stuoie.

      Sedemmo nell’alcova.

      I due personaggi che ci stavano davanti formavano tra loro un contrasto ammirabile. L’uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel vecchio, colla barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d’una vivacità indescrivibile e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere due file di grossi denti bianchi come l’avorio; un viso che rivelava a primo aspetto l’astuzia finissima e l’indole meravigliosamente pieghevole richiesta dalla natura del suo ministero. Gli occhiali, la tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano, gli davan quasi l’aria d’un diplomatico europeo. Si vedeva l’uomo avvezzo a trattare con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a molti pregiudizii del suo popolo, un mussulmano di manica larga, un moro inverniciato di civiltà. L’altro, il Caid Misfiui, pareva l’incarnazione del Marocco. Era un omo d’una cinquantina d’anni, di color bronzino, di barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia che pareva non avesse mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le sopracciglia corrugate; si sarebbe detto che gl’ispiravamo un profondo senso di ripugnanza. Io lo guardavo di sott’occhio, con diffidenza. Mi pareva che quell’uomo non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una testa ai suoi piedi. Tutti e due avevano in capo un gran turbante di mussolina ed erano ravvolti dalla testa ai piedi in un caïc trasparente.

      L’incaricato d’affari presentò a questi due personaggi, per mezzo dell’interprete, il Comandante di fregata e il capitano. Eran due ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me, invece, bisognava spiegare presso a poco che specie di mestiere facessi. L’Incaricato d’affari lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas stette un po’ pensando e poi disse alcune parole all’interprete il quale tradusse:

      —Sua Eccellenza domanda perchè avendo codesta abilità nella mano, Vostra Signoria la porta coperta. Vostra Signoria dovrebbe levarsi il guanto perchè si potesse vedere la mano.

      Il complimento era così nuovo per me che non trovai subito una risposta.

      —Non è necessario,—osservò l’Incaricato d’affari,—perchè la facoltà risiede nella mente e non nella mano.

      Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s’attacca a una metafora, non la lascia così facilmente.

      —È vero, fece rispondere sua Eccellenza,—ma la mano essendo lo strumento è anche il simbolo della facoltà della mente.

      La discussione si prolungò per qualche altro minuto.

      —È un dono d’Allà—conchiuse finalmente Sidi-Bargas.

      —Avaro Allà! dissi in cuor mio.

      La conversazione durò un pezzo e s’aggirò quasi sempre intorno al viaggio. Fu una lunga citazione di nomi di governatori, di provincie, di fiumi, di valli, di monti, di pianure, che avremmo trovato sul nostro cammino; nomi che mi suonavano all’orecchio come altrettante promesse di avvenimenti meravigliosi, e mettevano in gran moto la mia immaginazione. Che cos’era la Montagna rossa? Che avremmo veduto sulle sponde del Fiume delle Perle? Che omo doveva essere un governatore chiamato Figlio della cavalla? Il nostro Incaricato fece varie domande riguardo alle distanze, all’acqua, all’ombra. Sidi-Bargas aveva tutto sulla punta delle dita, e da questo lato bisogna riconoscere ch’era molto al di sopra di Visconti Venosta, il quale non sarebbe certo in grado di dire a un ambasciatore straniero quante sorgenti d’acqua pura e quanti gruppi d’alberi si trovano sulla strada da Napoli a Roma. Augurò infine un buon viaggio colla formola:—La pace sia sulla vostra strada,—e accompagnò l’Incaricato fin sull’uscio, stringendo la mano a tutti coll’apparenza d’una grande cordialità. Il Caid Misfiui, sempre muto, ci porse la punta delle dita, senza guardarci nel viso.—La mano, veh!—dissi tra me stendendogli la mia;—non la testa.

      Eravamo già fuori della sala, quando il ministro ci raggiunse.

      —Che giorno partite? domandò al Comm. Scovasso.

      —Domenica,—questo rispose.

      —Partite lunedì!—disse in tono premuroso Sidi-Bargas.

      L’Incaricato gli fece domandare perchè.

      —Perchè è giorno di buon augurio!—rispose con serietà,—e fatto un nuovo inchino, disparve.

      Sidi-Misfiui, mi fu detto poi, ha tra i Mori la fama di gran dotto, fu maestro del Sultano regnante, ed è, come gli si legge nel viso, un mussulmano fanatico. Sidi-Bargas gode la riputazione più amabile di gran giocatore di scacchi.

      Tre giorni prima della partenza, la stradetta dove dà la porta della Legazione era già affollata di curiosi. Dieci grandi cammelli, che dovevano portare a Fez, prima del nostro arrivo, una parte delle provvigioni di vino, vennero l’un dopo l’altro a inginocchiarsi davanti alla porta per ricevere il carico, e partirono accompagnati da un drappello di servi e di soldati. Dentro la casa, in quegli ultimi tre giorni, raddoppiò il lavoro e il via vai. Ai servi e ai soldati della Legazione s’aggiunsero i servi venuti da Fez. Ad ogni ora del giorno arrivavano provvigioni. La casa pareva un’officina, un magazzino e uno scalo. Si temette un momento che non bastasse il tempo agli apparecchi per poter partire il giorno fissato. Ma la domenica sera, tre di maggio, tutto era pronto, compresa l’asta altissima d’una smisurata bandiera tricolore che doveva sventolare in mezzo alle tende; e la notte poterono essere caricati sulle mule tutti i bagagli, che partirono il lunedì mattina, molte ore prima di noi, affinchè, arrivando la sera alla tappa, trovassimo l’accampamento piantato.

      Ricorderò sempre, con una emozione gradevole, quegli ultimi momenti che passammo nel cortile della Legazione prima della partenza.

      C’eravamo tutti. Erano arrivati il giorno innanzi, per unirsi a noi, un vecchio amico dell’Incaricato d’affari, il signor Patxot, antico ministro di Spagna a Tangeri, e il signor Morteo, genovese, agente consolare d’Italia a Mazagan. C’era il medico della carovana, Miguerez, nativo di Algeri; un ricco moro; Mohamed-Ducali, suddito italiano, che accompagnava l’ambasciata in qualità di scrivano; il secondo dracomanno della Legazione, Salomone Aflalo; due marinai italiani, uno ordinanza del comandante Cassone e l’altro calafato a bordo del Dora; i soldati della Legazione in gran gala; i cuochi, gli operai, i servi, tutte persone sconosciute che due mesi di vita comune nell’interno del Marocco dovevano rendermi famigliari, e che io mi preparavo a studiare sin da quel momento, ad uno ad uno, per farli un giorno movere e parlare nel libro che avevo in testa. Tutti avevano nel vestito qualchecosa di particolare, che dava a quella riunione un aspetto straordinariamente

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