Marocco. Edmondo De Amicis
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—Animo—disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto.
—Signor Grande,—io cominciai—lei ha l’abitudine di levarsi durante la notte?
Parve molto meravigliato della mia domanda.—No—rispose—e mi spiacerebbe che l’avesse qualchedun altro.
Quest’è curiosa! pensai.—Dunque—soggiunsi—lei riconosce che è un abitudine pericolosa.
Mi guardò.
—Scusi—disse poi—mi pare che su quest’argomento lei non dovrebbe scherzare.
—Mi scusi lei, io risposi,—non ho menomamente l’intenzione di scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi.
—È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le cattive conseguenze.
—Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi?
—Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io.
—È una vera impertinenza!—diss’io balzando a sedere sul letto.
—Oh stiamo a vedere adesso,—gridò il viceconsole alzandosi istizzito,—che è un’impertinenza il non volersi lasciar ammazzare!
Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d’esser stati corbellati tutt’e due. A lui pure avevan fatto credere che io giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle spalle e una pistola nel pugno.
La notte passò senz’accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per vedere l’aurora.
L’accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno.
Il cielo era tutto color di rosa ad oriente.
Mi avanzai fino in mezzo all’accampamento e rimasi per molto tempo immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno.
Le tende erano piantate sul fianco d’una collina tutta coperta d’erbe, di fichi d’india, d’aloè e d’arbusti fioriti. Vicino alla tenda dell’ambasciatore s’alzava una palma altissima, inclinata graziosamente verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di fumo. Era come un immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un’aria fresca e odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore che mi giungesse all’orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante la notte, chi sa di dove, per vedere l’accampamento. Parevano scolpiti nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di malevolenza, nè d’imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m’erano sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti altri, più lontano, seduti in mezzo all’erba, a due a due, a tre a tre, anch’essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall’accampamento della scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano annuciava ai compagni l’ora della preghiera, la prima delle cinque preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi s’inginocchiarono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava.
Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.
Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa.
—Che ne dici di questa vita?—gli domandò il comandante, mentre l’aiutava a vestirsi.
—Che vuol che ne dica?—rispose.
—Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t’ha fatto nessuna impressione?
Stette un po’ pensando, e rispose ingenuamente:—Nessuna impressione.
—Ma come! Quest’accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per te?
—Eh no, signor comandante.
—Ma quando mai l’hai visto prima d’ora?
—L’ho visto ieri sera.
Il comandante lo guardò.
—Ma ieri sera—domandò poi reprimendo la stizza—che impressione t’ha fatto?
—Eh.... rispose candidamente il buon marinaio—; si capisce.... la stessa impressione di questa mattina.
Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione.
Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso, minchione quanto ce n’entrava, ma buono e pieno di buon volere; un fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca, sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera ridicola, e gli dava l’aria d’una caricatura di cherubino. Sapeva una trentina di parole spagnuole, e con queste s’ingegnava di farsi capire, quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s’esprimeva quasi sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli arabi è facile sbagliare. Glielo domandai.
Prima si coperse il