Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI. Francesco Domenico Guerrazzi
Чтение книги онлайн.
Читать онлайн книгу Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI - Francesco Domenico Guerrazzi страница 4
Francesco Cènci possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua entrata si stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi era infinito, ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava il padre, che, tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre questi vigilava a rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio Cènci attendeva a rinettargli dagli scudi l'erario: egregi entrambi nel diverso mestiere. Intorno al conte Francesco, male sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra alcun uomo mai corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto, lo dicevano avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in conferma così dell'una come dell'altra fama potevansi addurre riscontri. Aveva sostenuto parecchi processi, ma n'era uscito sempre assoluto ex capite innocentiæ: molti però non si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano sussurrando dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota Romana condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se la vita sua compariva al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe a provarla senza fine spietata la sua misera famiglia, la quale per pudore, e molto più per paura, non ardiva profferire parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si compiacesse immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e appena immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo; avesse a spendersi un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo volere, era il lampo; il fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di audacia!) tenere conto esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro di Ricordi si trovarono registrate le seguenti partite:—Per le avventure, e peripezie di Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per la impresa dei sicarii di Terni zecchini 2000, e furono rubati.—Viaggiava a cavallo e solo: quando sentiva il cavallo stanco scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano venderglielo ei se lo toglieva, dando qualche pugnalata per giunta. Paura di banditi nol tratteneva da passare soletto le foreste di san Germano e della Faiola; e spesso ancora, senza punto posare, fu visto condursi a cavallo da Roma a Napoli. Quando appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o incendio, o assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere. Forte fu della persona, e destro in ogni maniera di esercizii maneschi, così che provocava sovente i suoi nemici con soprusi e dileggi: ma di questi, palesi ne aveva pochi; chè lo temevano assai, e a cimentarsi con lui ci pensavano due volte. Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di bravi; il cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.
Sisto V, che fu pontefice (ed avrebbe potuto anche essere carnefice) di Roma, certa volta invitati al Vaticano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i più potenti dei nobili romani, dopo averli trattenuti alquanto in piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti balconi, donde, volgendo gli occhi alla sottoposta città, disse ai circostanti: «O la mia vista, siccome suole per vecchiezza, è diventata fosca, o di qualche strano apparecchio vanno ornati stamattina i merli dei palazzi delle Signorie vostre eccellentissime: andate a riscontrare, e in cortesia fatemi assapere quello ch'è.»
Erano i cadaveri penzoloni dei banditi, che nei palazzi di cotesti signori riparavano. Il Papa aveva ordinato si prendessero, e tutti, senza misericordia, ai merli del palazzo s'impiccassero.
Francesco Cènci, per questo e per altri successi avendo ottimamente conosciuta la natura del Papa, reputò opportuno di tirarsi al largo; e finchè ei visse stette a Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda. Il serpe aveva trovato a mordere la lima.
Di persona, aiutante era molto; e, comunque in là con gli anni, pure bene di salute disposto; se non che, offeso nella diritta gamba, zoppicava. Copioso d'idee e facondo di eloquio, avrebbe acquistato fama di oratore egregio se glielo avessero conceduto i tempi e la lingua, che, ad ogni più leggiera alterazione inciampandogli fra i denti, lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i sassi. Di laide sembianze non poteva estimarsi per certo; e non pertanto sinistre così, che giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza, troppo spesso paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e una tinta più gialla e biliosa, il suo volto presentava la medesima aria della sua giovanezza. La fronte, mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non profonda quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì sfumata, leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta estrema dell'ale sopra la fronte della bellezza che declina. Gli occhi, mesti per ordinario, colore del piombo simili a quelli del pesce morto, privi affatto di splendore, contornati da cerchi cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne—pareano cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente bene a un santo e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello della sfinge, o come la fama dello stesso Conte Cènci.
Della persona e dei costumi di lui parmi aver detto abbastanza: più tardi m'ingegnerò esporre uno studio psicologico intorno a questo prodigioso personaggio.
Il Conte la sera precedente erasi ritirato di buon'ora nelle sue stanze, insalutati moglie e figliuoli. A Marzio, che gli profferiva i consueti uffici, aveva risposto:
—Va' via: mi basta Nerone.
Nerone era un cane enorme di mole e di ferocia.—Così lo nominò il Cènci, meno in memoria del truce imperatore, che per significare, nel vetusto linguaggio de' Sanniti, forte, o gagliardo.
Coricato appena, prese a dare di volta pel letto: incominciò a gemere d'impazienza: a mano a mano la impazienza diventò furore, e si pose a ruggire. Nerone gli rispondeva ruggendo. Indi a breve il Conte, balzando dalle odiate piume, esclamò:
—Abbiano avvelenato le lenzuola!—Questo si è pur dato altra volta, ed io l'ho letto in qualche libro. Olimpia! Ah! mi sei fuggita, ma io ti arriverò:—nessuno ha da scapparmi di mano—nessuno.—Quale silenzio è questo accanto a me! Che pace qui in casa mia! Riposano:…—dunque non gli atterrisco io?—Marzio.
Il cameriere chiamato accorreva prontissimo.
—Marzio, riprese il Conte, la famiglia che fa?
—Dorme.
—Tutti?
—Tutti; almeno sembra, poichè ogni cosa sia tranquilla in casa.
—E quando io non posso dormire ardiscono riposare in casa mia?—Va', guarda se veramente dormono; oreglia alle stanze, in ispecie quella di Virgilio; sprangale pianamente per di fuori, e torna.
Marzio andò.
—Costui, continuava il Conte, sopra gli altri aborrisco; sotto quella superficie di ghiacciata mansuetudine non iscorrono meno veloci le acque della ribellione: aspide senza lingua, non però senza veleno. Quanto mi tarda, che tu muoia!—
Marzio, tornando, confermava:
—Dormono tutti, anche don Virgilio; ma di sonno travagliato, per quanto può giudicarsi dall'anelito febbrile.
—L'hai sprangata fuori?
Marzio col capo accennò