I Robinson italiani. Emilio Salgari
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— Ventre di pesce-cane!... — esclamò il marinaio. — Tanto da morire di fame con tutto comodo!...
— Se non di fame, per lo meno di sete, — disse il signor Emilio. — Col calore che regna su questo mare, non potremo resistere.
— E poi otto giorni senza chiudere occhio! — aggiunse Piccolo Tonno. — Temo di non dover più mai rivedere nè Ischia, nè Napoli.
— Nè io papà Merlotti, il taverniere di via Sottoripa, mio buon amico, — disse il marinaio. — Addio, Genova!...
— C'è tempo a morire, amici miei, — disse l'ex-uomo di mare. — È vero che questo mare è poco battuto dalle navi, ma possiamo venire raccolti da qualcuna, oppure venire spinti verso qualche isola dell'Arcipelago. Ve ne sono parecchie lontane dal gruppo principale e chissà che qualcuna non ci sia vicina.
— Per ora non ne vedo, signore.
— Navighiamo da mezz'ora, Enrico. Aspetta domani mattina o posdomani.
— Ma non abbiamo nulla da porre sotto i denti, signore.
— In due o tre giorni non si muore.
— Ma il sonno? Resisteremo noi?
— Vi sono delle funi appese all'albero ed anche dei pezzi di vela. Chi c'impedirà di fabbricare, alla meglio, un'amaca, di appenderla ai due pennoni o fra la crocetta e un'antenna?...
— È vero, — disse il mozzo.
— Zitto, — disse il marinaio.
— Cos'hai udito? — chiese Albani.
Un tonfo si udì dietro all'albero. I tre naufraghi si volsero di comune accordo e videro una massa nerastra emergere a pochi passi di distanza, fissando su di loro due occhi rotondi, colla pupilla azzurrognola e l'iride verde-oscuro.
Una bocca enorme, semi-circolare, s'aprì emettendo un rauco brontolìo, mostrando una corona di denti piatti, triangolari, frastagliati, che si muovevano come se già gustassero la preda agognata.
— Ancora quel dannato pesce-cane! — esclamò il marinaio, impallidendo. — Ma che non ci lasci proprio più?
— Attenti alle gambe, — disse Albani.
— Ed alla coda, — aggiunse il mozzo.
Lo squalo, che doveva aver seguito il rottame colla speranza d'impadronirsi, presto o tardi delle vittime, allungò il grosso capo appiattito verso l'albero, come se volesse conoscere più da vicino le prede e con un poderoso colpo di coda uscì più di mezzo dall'acqua.
I tre naufraghi, con un moto istintivo, pur tenendosi sempre a cavalcioni dell'albero, si erano gettati indietro, aggrappandosi ai cordami del pennone di gabbia, il quale mantenevasi ritto, mentre l'altra metà trovavasi sommersa.
— Su le gambe, — gridò Albani.
— Fulmini!...
— S. Gennaro mandi un accidente a quel mangiatore d'uomini!...
— Attenzione!... —
Lo squalo stava per ritentare l'assalto e certamente più impetuoso del primo, poichè quei mostri, sebbene pesino cinque ed anche seicento chilogrammi, sono dotati d'una agilità straordinaria. Con un colpo della loro possente coda riescono a slanciarsi fuori dall'acqua per parecchi metri, ed una volta ne fu veduto uno toccare perfino l'estremità del pennone di trinchetto d'una nave negriera, per impadronirsi d'un cadavere che era stato appositamente colà sospeso. Gli occhi del mangiatore d'uomini tradivano un'ardente bramosia e la sua bocca si era aperta smisuratamente, illuminandosi di quella luce vivida e sinistra che simili mostri proiettano durante la notte. S'immerse un istante come se volesse prendere maggiore slancio, poi si scagliò uscendo tutto intero dall'acqua, ma invece di colpire i naufraghi che si erano lasciati cadere precipitosamente, varcò l'albero e cadde dall'altra parte, imbrogliandosi fra i bracci del pennone, le sartie ed i paterazzi.
Quasi nel medesimo istante si udì Piccolo Tonno a urlare.
— Una scure!... Una scure!... —
Capitolo IV Terra!... Terra!...
La paura aveva fatto impazzire il mozzo od i suoi occhi avevano proprio veduto un'arma?... Il marinaio ed il signor Albani, che erano risaliti prestamente sull'albero, cercarono il loro compagno e lo videro correre, mantenendosi ritto meglio d'un equilibrista giapponese, verso l'estremità del tronco, abbassarsi rapidamente e fare sforzi disperati come se volesse strappare un oggetto profondamente infisso nel legno.
— Ehi, Piccolo Tonno!... — gridò il marinaio. — Vuoi farti mangiare dal pesce-cane?...
— Una scure!... Una scure!... — ripeteva il mozzo, raddoppiando gli sforzi.
— Ma dov'è? — chiese il signor Albani.
— È qui, infissa nell'albero.
— Una scure lì?...
— Sì, signor Emilio.
— Spicciati, mio piccolo Tonno! — urlò il marinaio. — Il pesce-cane sta per ritornare! —
Il mozzo raccolse le proprie forze e con una strappata irresistibile staccò la scure. Si raddrizzò mandando un grido di trionfo e la porse al signor Emilio.
Lo squalo, sbarazzatosi dalle corde che lo avevano imprigionato sotto le pinne triangolari, ritornava verso l'albero per tentare un terzo e forse più pericoloso assalto. Nuotò fino a dieci passi dai naufraghi, s'inabissò un'ultima volta e rinnovando il colpo di coda balzò innanzi, ma andò a cadere proprio sopra all'albero il quale affondò sotto quell'enorme peso.
Il marinaio ed il mozzo caddero in acqua, ma l'ex-uomo di mare si tenne fermo stringendo le gambe con suprema energia, poi pronto come il lampo, alzò la scure e la lasciò cadere con forza disperata sullo squalo che gli passava dinanzi.
Risuonò un colpo sordo ed uno sprazzo di sangue schizzò in aria.
Il mostro agitò furiosamente la possente coda spezzando di colpo il pennone di pappafico che sporgeva dall'acqua e sparve, formando dietro di sè un risucchio spumeggiante.
— Ucciso? — gridarono il marinaio ed il mozzo, che erano tornati prontamente a galla.
— Non lo credo, ma suppongo che ne avrà abbastanza per ora e che non avrà più voglia di ritornare all'attacco, — rispose Albani.
— E la scure?... Perduta forse?...
— No, Enrico; è un'arma troppo preziosa per non conservarla.
— Ma come quell'arma si trovava infissa nell'albero?
— Credo che sia quella adoperata dal nostromo. Mi ricordo che quando l'albero cadde, si era allontanato precipitosamente per non farsi schiacciare dal pennone di gabbia.