Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile. Oscar Wilde
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Читать онлайн книгу Il fantasma di Canterville e il delitto di Lord Savile - Oscar Wilde страница 2
Una mattina egli abbandonò come tutte le mattine il suo villaggio. Ma quando arrivò alla spiaggia del mare, ecco che egli scorge tre sirene a fior delle onde, che pettinavano con un pettine d'oro i loro capelli verdi. E continuando la sua passeggiata, egli vide, giunto presso il bosco, un fauno che suonava il flauto a una corona di silvani...
Quella sera, quando egli rientrò nel suo villaggio e gli domandarono come le altre sere: Via! racconta: che hai tu veduto? egli rispose: Non ho veduto nulla».
Nell'atteggiamento di Oscar Wilde non si suole vedere generalmente che un esasperato bisogno di stupire, d'irritare la curiosità del pubblico. Egli stesso, conveniamone, invitava ad un giudizio così superficiale, grazie alle spumeggianti qualità del suo spirito aristocratico, tutto trine e gioielleria. Ma dietro il brillante fantasma del dandy, dietro il gentleman prezioso, estremo, superlativo, ecco apparire il vero personaggio di Wilde, il fascinante favoleggiatore, il prestigioso datore di estasi, il Bugiardo, com'egli dice, il cui scopo è di sedurre e d'incantare. Ed ecco che sotto il suo alito musicale l'albero di Delfi rinfiora, e nella foresta si solleva il vento delle danze silvane, e a fior delle onde appaiono le sirene...
«E la Società non sarà sola a bene accoglierlo, dice Wilde raccogliendo in qualche parola l'essenza stessa della sua estetica. L'arte, evasa dalla prigione del realismo, s'affretterà innanzi a lui e bacierà le sue belle labbra menzognere, sapendo bene che lui solo possiede il segreto delle sue manifestazioni — il segreto che la Verità è assolutamente e interamente questione di stile. E la Vita, stanca di ripetersi a profitto di Spencer, degli storici scientifici e dei compilatori di statistiche, la Vita lo seguirà umilmente e cercherà di riprodurre nella sua maniera semplice e inalterabile qualcuna delle meraviglie ch'egli narra».
Tutte le regioni della sua sensibilità sono illuminate da questo pensiero costante, interamente personale, coesistente alla virtù adunatrice di verbi, onnipresente ad ogni manifestazione della sua individualità fino talvolta ad acuirne il senso sottile. Per Wilde, come per Platone, come per Fichte, il mondo reale non è che pura concezione del nostro spirito, e le cose non sono che apparenze delle nostre idee.
Egli andava nella vita esultante, recando nelle mani la sua anima sacra di Poeta. Non era Giacinto che veniva a parlare delle rive del lago di Tiberiade; era l'ombra di Orfeo vittoriosa degl'inferni.
Si esprimeva per apologhi, pensava in brevi significazioni narrative bagnate di un'atmosfera magnetica che permetteva allo spirito un prolungamento e una suggestione indefinita. E la voce era di una musicalità fine e dolce, quasi un accompagnamento avviluppante la frase elegante e perfetta. Parole speciose, silenzi enigmatici, suggestioni, musiche...
E quando egli taceva, tutti lo ascoltavano ancora, commossi e sorridenti, simili a quei marinai delle navi greche, ai quali la voce insidiosa del mare recava il mormorio sommesso delle sirene.
Ma attraverso i più seducenti arabeschi dell'immaginazione e del linguaggio, l'idea era sostenuta ad un'altezza paradossale e logica. Una giuntura sottile e segreta fondeva strettamente l'emozione dell'esteta e l'emozione dell'uomo; e il metallo sortiva puro, lo stilista non aveva che da cesellarlo, gioiello d'arte e di vita, con quella flessibilità intellettuale che può prendere tutte le maschere, insinuarsi in tutti gli atteggiamenti, vivere insieme e volontariamente vite diverse e contradittorie.
A questo punto della sua vita Oscar Wilde è completo; personifica la propria vita e la propria leggenda assaporando la voluttà profonda d'associare degli opposti. Il segreto meraviglioso della vita è suo. Egli può veramente dirsi «re della vita»: The King of the life.
Ma a questo punto comincia una fine e quasi impercettibile deteriorizzazione progressiva. Il soffio del dionisiaco, moderato fin qui come in un concerto il lirismo del solista è sottomesso al bisogno preciso della misura, adesso si fa elemento dominante ed esasperante. L'affermazione della Vita stessa nei suoi problemi più strani e più ardui, la volontà di vita che sacrifica i suoi tipi più elevati a beneficio del proprio carattere inestinguibile, quello insomma che Nietzsche ha chiamato «dionisiaco», sale, si svolge, si diffonde, si esalta.
Egli, giustificò Henri De Régnier, credeva vivere in Italia ai tempi del Rinascimento o in Grecia ai tempi di Socrate...
Lo spaventoso amore ch'egli provava per la vita e per la bellezza della vita, era come una virtù demoniaca che lo innalzava su tutti i culmini e lo profondava in tutti i baratri. Sottili desiderî, voglie squisite, volontà fosche, aberrazioni incredibili, un fervore epicureo da cui s'alza fatidico e quasi rabido l'antico monito pagano: coronemus nos rosis, cras enim moriemus.
Per qualche tempo egli fu così il simbolo di un nuovo Edonismo e andò nel mondo ebbro di arte, con la gola arsa di bellezza, con gli occhi bruciati dalla sua visione, con la febbre di squisiti peccati nel sangue, senza lasciar sfuggire un solo istante, cercando sempre sensazioni nuove, sempre, sempre... Ma il ritmo del pathos travolge e precipita. Incipit tragœdia.
La sventura, come già il piacere, è opera deliberata e necessaria di quel dover terribilmente godere.
«Io dovevo andare innanzi: l'altra metà del giardino aveva anche i suoi segreti per me». Ed egli fa di sè, della sua carne e della sua anima, una belva intelligente e voluttuosa.
Gli amici lo descrivono nei tempi immediatamente anteriori alla prigionìa, vagante per l'Europa e per l'Africa Settentrionale, in preda a non so quale inquietudine.
Ad Algeri, narrò ad Andrè Gide uno degli ultimi suoi miti delicati e sapienti; egli sfuggiva l'opera d'arte, non voleva più adorare se non il sole; il sole detesta il pensiero, lo fa indietreggiare e rifugiarsi nell'ombra, dall'Egitto alla Grecia, all'Italia, alla Francia, alla Russia, alla Norvegia.
L'adorazione del sole era l'adorazione della vita, lirica adorazione che si faceva via più feroce, terribile. Il Gide aggiunge: «Nietzsche mi stupì meno più tardi, perchè avevo inteso Wilde dire: Non la felicità! Sopratutto non la felicità. Il piacere! Bisogna voler sempre il più tragico».
E volle il più tragico.
La storia è nota. Fu lui che intentò il processo contro il più illustre dei suoi diffamatori, entrò quale accusatore in quella «Camera della giustizia degli uomini...». Fu preso, tonduto, vestito di sacco, ammanettato...
Pianse:
«A chi è in prigione, egli dice, le lagrime son parte della quotidiana esperienza: un giorno in prigione senza pianto è un giorno in cui si ha il cuore duro, non un giorno in cui si è felici».
Ma pur dal profondo dell'abisso egli si inebria delle bellezze che lo attendono oltre la porta della prigione:
«Io ho uno strano desiderio delle grandi e semplici cose primeve, come il mare, che m'è non meno materno della terra... Io tremo di piacere quando penso che il giorno stesso in cui lascerò la prigione, insieme il citiso e la glicine fioriranno nei giardini e ch'io vedrò il vento agitare in mobile bellezza l'oro ondeggiante dell'uno, e far che l'altro scuota la pallida porpora delle sue piume, così che tutta l'aria sarà Arabia per me».
Come Gautier, egli è sempre uno di coloro pour qui le monde visible existe. Pur nel profondo dell'abisso la sua anima rimane pagana e s'inebria di piacere, anche se amaro