Lettere di Lodovico Ariosto. Lodovico Ariosto
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Sullo scorcio del 1503 Lodovico rinunziò al capitanato di Canossa e passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, ch'egli scelse con poca fortuna a suo mecenate, ma che tanto influì su lo scopo delle sue poesie.
Ippolito d'Este, figlio d'Ercole I e di Eleonora d'Aragona, nacque il 20 marzo 1479, e per essere il terzo genito fu destinato alla Chiesa: volendosi di regola ne' principi che il primo succeda al padre nel governo dello stato, il secondo cerchi salire in dignità cingendo la spada, il terzo faccia altrettanto vestendo la stola: ma bene spesso la traccia è fuor di strada, e fa mala prova[20], non essendosi prima indagata l'indole e tendenza d'ognuno. — Di sei anni Ippolito vestì l'abito clericale, ricevendo la prima tonsura nel duomo di Ferrara. Passava appena i sette anni, ed ecco che il re Mattia Corvino marito di una zia materna d'Ippolito lo nominava arcivescovo di Strigonia. Il papa non voleva approvare la nomina per l'età ancora infantile, ma dopo pochi mesi vi si adattò. Il piccolo arcivescovo partiva alla volta d'Ungheria, facendosi portare in una lettica con grande accompagnamento affine di prender possesso della sua sede, e serviva purtroppo ovunque passava a ridicolo spettacolo di profanata autorità. Padrone troppo presto di sè stesso, insignito di una dignità di cui solo misurava l'importanza dagli atti continui di un simulato profondo rispetto, vivendo in una corte straniera, presso parenti che cecamente lo amavano, nè mai contraddetto in qualunque capriccio, sortì un carattere altiero, inflessibile, vendicativo, crudele. Cambiato poi l'arcivescovato di Strigonia nel vescovato d'Agria, che non l'obbligava a residenza, ebbe nel 1497 l'arcivescovato di Milano, cui s'aggiunse nel 1499 quello di Narbona e nel 1502 quello di Capua. Fu anche Vescovo di Ferrara nel 1503, di Modena nel 1507. Alessandro VI lo nominò cardinale diacono di santa Lucia in Silice il 21 agosto 1493 di soli quattordici anni, e fu anche arciprete della Basilica Vaticana, come pure prevosto della ricchissima Abbazia della Pomposa di Ferrara: deplorabile abuso d'allora, e neppur tolto a' giorni nostri, di cumulare tante dignità e tante rendite ecclesiastiche sopra un solo uomo, che inoltre mostrava di seguire intieramente il genio dell'età corrottissima, senza curarsi delle cose sacre. Erano in fatti sue cure gradite le cacce[21], le mostre militari, i convegni gioviali, l'amor delle donne, i ricchi e pontificali conviti ne' quali durava la maggior parte della notte. Nel 1504 fece bastonare un messo del papa che gli portò un monitorio che non gli garbava: prepotenza arditissima sotto Giulio II. — Lo spirito delle cose mondane era allora molto esteso in corte di Roma. Nelle lettere di cardinali amici d'Ippolito s'incontrano spesso descrizioni di cacce fatte in Romagna, inviti a partecipare ad altre che si preparavano, e domande di falconi e di levrieri, di cui si lamenta la scarsità in Roma. Una lettera del cardinale Marco Cornaro ha tutto il garbo di que' gentili e profumati viglietti soliti scambiarsi fra due persone galanti: «Ho avuto piacer grande a intendere quanto mi scrive V. S. Rev. di quelle due nobilissime madonne, l'una madonna Clara Pusterla, l'altra madonna contessa Borromea sua sorella; e tanto più quanto che essa V. S. Rev. mi scrive detta contessa esser fatta molto bella, e l'una e l'altra, insieme con li suoi magnifici consorti, essere state a piacere con quella. Se dette madonne non fossero partite, pregherìa V. S. Rev. si degnasse raccomandarmele; a una delle quali essendo servitore V. S. Rev., io desidererìa essere servitore all'altra, per fare compagnia ad essa V. S.». — La passione delle armi, unita ad un certo valore, portò il cardinale Ippolito ad una non comune intelligenza delle cose di guerra; nel che rese importanti vantaggi al duca Alfonso I di lui fratello nella guerra coi Veneziani e con papa Giulio II. Ci narra il da Porto[22] che il cardinale Ippolito era «il più disposto corpo con il più fiero animo che mai alcuno della sua casa avesse, e sopra questa guerra (coi Veneti) d'ogni cosa ministro. Piacciono a costui gli uomini valorosi, e quantunque sia prete, ne ha sempre molti d'attorno». Trovandosi nel 1509 colle genti di suo fratello sotto Padova, facevasi condurre «alla guisa di Dario sopra una carretta per lo campo, benchè armato ed in abito di soldato»; e queste foggie, sì poco convenienti a un personaggio del suo carattere, ripetevansi sovente, ed erano da tutti con dispregio osservate. — Delle donne ebbe amicizia troppo intima con parecchie. Secondo il Gordon[23] fu rivale col duca Valentino negli amori con Sancia vedova di Goffredo Borgia. Amò una certa Veronica che da Brescia gli scriveva il 23 giugno 1508, raccomandandosi a lui «tante volte quanti sono i pensieri che nascono il giorno a quanti sono gli amanti riamati»; e prorompendo in dire: «oh quanti sono!» finisce umilmente baciandogli «le belle manine, lo prega di nuovo voglia ricordarsi di sua bassezza, e si dichiara quella fedel serva che tanto ama e adora Sua Signoria». — Dalla Dalila Putti di Ferrara ebbe un figlio naturale per nome Ippolito: da un'altra donna ebbe Isabella, maritata nel 1529 con Giberto Pio di Sassuolo. Ma l'amore, anzi una cieca brutale passione spinse il cardinale ad un iniquo delitto, e macchiò d'infamia eterna il suo nome. — Erasi egli perdutamente invaghito di una damigella della corte di Ferrara, la quale, com'è solito delle donne lusinghiere, non contenta di accogliere le istanze del cardinale, mostrò gradire moltissimo anche quelle di don Giulio fratello bastardo di lui. Il cardinale se ne accorse, e sollecitando la donna a dichiarargli la cagione di sì nuovo capriccio, confessò ella di non aver potuto resistere agli occhi bellissimi di don Giulio, che giudicava bastevoli a vincere il cuore di tutte le donne. La vanità puerile del cardinale restò umiliata e nel vivo trafitta; onde lasciandosi trasportare dall'impeto della gelosia e dell'invidia macchinò un'atroce vendetta. Il 3 novembre 1505 don Giulio era andato di buon mattino alla caccia; e il cardinale, forse travestito, in mezzo a quattro de' suoi staffieri, si portò alla campagna di Belriguardo, attendendo coll'insidia dell'assassino che il fratello fosse di ritorno. L'infelice don Giulio restituivasi tranquillamente a Ferrara ignaro della sorte che lo attendeva, quando ad un tratto videsi assalito e stramazzato di cavallo. Il cardinale lo circondò de' suoi uomini che lo ammortirono di percosse, e, cosa incredibile ma pure certissima, stando egli proprio a vedere[24], fecegli con acuti stecchi cavare ambidue gli occhi. Compiuto appena il delitto, il cardinale, sperando allontanare da sè il primo sospetto nell'animo del duca, corse a dargliene avviso come di cosa che allora vociferavasi per la città; e poco dopo don Giulio veniva portato in palazzo, deforme nel viso, tutto coperto di sangue. A quest'orribile vista che nella famiglia degli Estensi ritraeva in parte quanto di più crudele rappresentaronci i greci «di Tiesti, di Tantali e di Atrei»[25], fu detto che il duca Alfonso salì in ira tale, che rovesciò la tavola ove trovavasi a mensa; e conoscendo a più indizî onde il fatto procedesse, cacciò da sè il cardinale, ingiungendogli di sortire dai confini. Allo sgraziato don Giulio si apprestavano intanto le cure maggiori: l'occhio sinistro, non essendo stato intieramente staccato dall'orbita, rimesso al posto, riacquistò col tempo un poco di luce; il destro era affatto perduto.
Sparsa la fama di tanto abominio e dei risentimenti del duca, il cardinale fu sollecito di prevenire le gravi conseguenze che doveva aspettarsi dal papa: e perciò, avendo fatto fuggire que' suoi famigliari, scrisse l'8 novembre a Beltrando Costabili protonotario apostolico e oratore ducale a Roma, che si presentasse a Giulio II e che, baciatigli i piedi a nome di lui, gli esponesse il caso occorso per opera de' quattro famigliari a motivo di certe inimicizie passate con alcuni domestici del fratello don Giulio, e che intendendo i primi che vi era pure qualche differenza tra esso cardinale e il fratello medesimo, non avevano creduto fare ingiuria al loro padrone. Che però egli ne provava il più grande dolore ed affanno, e che, sebbene fosse persona ecclesiastica, non restava di fare ogni opera per avere i malfattori nelle mani, i quali sino allora non si erano potuti trovare. Terminava poi con raccomandarsi alla solita desterità del reverendo oratore; cui fu agevole in questa parte accomodare la cosa. Ed è a rimarcare che la minuta della lettera stessa preparata da un segretario, e che rinvenimmo nel nostro Archivio, ha correzioni di mano del cardinale che ne moderano artificiosamente l'importanza: chè dove diceva cercarono estinguergli la luce degli occhi mutò in batterono negli occhi, vi soppresse le parole delitto