Lettere di Lodovico Ariosto. Lodovico Ariosto

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Lettere di Lodovico Ariosto - Lodovico Ariosto

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scandalo (Doc. IV).

      Si scoperse in breve che uno de' famigliari colpevoli chiamato Francesco Verdezino si era riparato a Venezia. Il duca chiese in favore di averlo in sue forze; e se da principio gliene fu data speranza, il governo veneto dichiarò poco dopo che per le raccomandazioni avute in contrario dal cardinale, il quale era riguardato come buon figliuolo della serenissima Repubblica, non sarebbe consegnato. Venne quindi scritto dal duca al suo ambasciatore Sigismondo Salimbeni in data 2 dicembre 1505, di far intendere alla Signoria di Venezia, che non avesse rispetto all'interposizione del cardinale, ch'egli era pure figliuolo ed anzi primogenito di quella, e perciò meritevole di essere preferito e in amore e in compiacenza, ad impulso altresì della causa giusta che lo moveva in confronto dell'altra del proprio fratello: ma ogni preghiera rimase inutile, benchè dèsse fede che non piglierebbe sulla persona del malfattore alcuna risoluzione che non fosse a grado della Repubblica (Doc. V).

      La collera del duca durò poco per altro; ond'egli, abbandonate le esigenze, tornò ad avere il cardinale in somma grazia e favore. L'ingiustizia colla quale perdonavasi al medesimo, lasciando impunita e dimenticata l'offesa commessa sopra don Giulio, trasse questi a concertarsi coll'altro fratello don Ferrante di far uccidere il cardinale e il duca; l'uno per vendicarsi, l'altro per impadronirsi dello Stato di cui aveva ambizione. Ma il cardinale temeva, e vegliava gli andamenti di don Giulio: videlo in grande intimità con il detto fratello, con Albertino Boschetti conte di san Cesario e con Franceschino Boccaccio da Rubiera camerlingo di don Ferrante; onde avvertito il duca del sospetto che in lui erasi destato, furono tosto imprigionati il Boschetti, il Boccaccio e due staffieri dello stesso don Ferrante, che fra i tormenti confessarono la congiura. Alla notizia dell'arresto don Giulio fuggì in Mantova presso il marchese Francesco Gonzaga cognato di lui. Gherardo Roberti capitano de' balestrieri e genero del Boschetti, con certo Gianni prete di Guascogna, cantore ed intrinseco del duca, entrambi complici della trama, fuggirono l'uno a Carpi, l'altro a Roma. Don Ferrante non curò di mettersi in salvo, e chiamato al cospetto del duca se gli gettò ginocchioni, domandando perdono di un attentato che non fu condotto ad effetto. Il duca non ebbe pietà pel suo fratello. Avendo inteso ch'ei diede ascolto alle insinuazioni di don Giulio per vendicarlo del cardinale Ippolito, l'assalì al viso con una bacchetta che allora trovavasi in mano, e percuotendolo e gridando di volerlo eguagliare a don Giulio, giunse con inaudita barbarie a cacciare ancora a don Ferrante un occhio dalla testa[26]! Il marchese di Mantova consegnò poi vilmente don Giulio, e si ebbero pure gli altri due fuggitivi. Vennero decapitati il Boschetti, il Roberti, il Boccaccio nel giorno 12 settembre 1506: messi in quarti, si attaccarono alle porte della città, e le teste confitte in tre lancie stettero gran tempo a terrore dei riguardanti sopra la torre della Ragione. Il prete Gianni fu collocato in una gabbia di ferro fuor della torre del castello, esposto alla vista del pubblico, di mezzo verno, con un par di calze di tela e un grigio su la camicia, oltre ad avergli tagliate sul vivo le unghie[27]; poichè, essendo prete, forse Roma nel consegnarlo diede il veto di ucciderlo. Dopo sette giorni fu però strozzato dentro la gabbia, «significandosi che l'avesse fatto di sua posta»[28]. Del cadavere fu fatto abominevole strazio, attaccandolo per i piedi ad una carretta, trascinandolo per la città, poi sospendendolo per l'un de' piedi a un alto stilo sopra del ponte di Castel Tedaldo in Po, fin che disfacendosi cadde da sè stesso nell'acqua. A don Giulio e don Ferrante il duca fece erigere un palco nella corte del castello, ed invitata a spettacolo la nobiltà del paese, i due sfortunati fratelli coll'impronta nel viso delle sevizie sofferte salirono su di quello in compagnia del carnefice: le loro teste già stavano per essere recise con orrore e raccapriccio di tutti; quando il duca, a farsi proclamare principe clemente, fratello amorevole, fece loro grazia della vita, condannandoli a perpetua prigione: «don Giulio in un fondo di torre, e don Ferrante di sotto da lui, con finestre di tre doppie di ferro»[29].

      Non era ancor bene accertato chi fosse la donna che destò la forsennata gelosia del cardinale Ippolito. Il Frizzi[30] la dice una damigella per nome Angela, la prima tra le molte che Eleonora d'Aragona all'epoca del suo matrimonio col duca Ercole I condusse seco da Roma e che era ancora sua parente. Il Litta[31] afferma invece che questa damigella era Isabella d'Arduino gentildonna napoletana. Ma i due scrittori non osservarono che tanto l'Angela che l'Isabella, se vennero a Ferrara coll'Aragonese nel 1473, dovevano trovarsi all'epoca dei fatti che narriamo presso i cinquant'anni; età non atta a destar siffatte passioni. Oltre di ciò l'Isabella fu anche l'amica del duca Ercole I, la madre di don Giulio, poi da tempo la moglie di Giacomo Mainetto. Niuno certo crederà che le lodi date da una madre agli occhi di suo figlio e che non potevano suscitar gelosia, fossero riguardate dal cardinale non solo «come poco cortesi, ma altresì come una sentenza che chiudeva a lui l'adito alle grazie dell'avvenente napoletana», come il Litta continua a chiamarla. Non può dunque esser questa la donna che cerchiamo scoprire; ma conoscendo che dopo le nozze di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este celebrate in Roma nel gennaio 1502, fra le damigelle che accompagnarono la sposa vi fu pure un'Angiola Borgia sua parente (chiamata anche sorella del cardinale Borgia), che si fermò a Ferrara, ed era dotata di straordinaria bellezza[32], non esitiamo di riconoscervi la donna da cui ebbe origine l'empio fatto del cardinale.

      Quanto a Lodovico Ariosto, al quale è tempo di far ritorno colla nostra narrazione, venuto al servigio del cardinale, ed essendo questi stato eletto vescovo di Ferrara nell'ottobre 1503, gli offerse tributo di alcuni versi latini pieni di adulazione, e che terminano con lodarlo di castità[33]! Due anni dopo accadde il tristo caso narrato; ed il poeta conoscendo che sarebbe stato impossibile levarne la colpa dal cardinale, cercò renderla men odiosa al medesimo componendo un'Egloga[34] nella quale parla dell'ordita congiura, col tacere i motivi che vi diedero origine: e accrescendo i falli di don Giulio, e designandolo di mente invida, ingordo di adulterii (che pur sono due de' principali difetti del cardinale), nega persino ch'ei fosse figlio di Ercole I, ma bensì di chi ebbe l'Isabella Arduino in custodia, per ridurre almeno il delitto del suo signore sopra chi non eragli fratello. Fa di Lucrezia Borgia la donna casta, dicendo che quanti la conobbero prima di essere venuta a far parte della famiglia d'Este, lodavano più della bellezza leggiadra, l'ingegno altissimo, l'opere sante e l'inclita onestà di lei; cose tutte che sono in onta del vero, e, ci duole il dirlo, indicano nell'Ariosto, almeno in quel primo periodo, il cortigiano bramoso di raggiungere un favore che, volendosi ad ogni costo comperare, era dall'accorto ed avaro venditore tenuto sempre a più alto prezzo.

      Il poeta mostrò poi ricredersi in alcuni casi, dirigendo nel 1514 al cardinale un capitolo che, lungi dall'esaltarlo per casto, lo dice anzi trafitto più di una volta dalla fiera punta d'amore e non anche allora sanato[35]. Così nel Furioso loda la pietà del duca Alfonso per aver risparmiata la vita ai fratelli don Ferrante e don Giulio: e qui nettamente ricorda che i miseri pur sono suo sangue, della sua più cara famiglia[36].

      Era nel 1486 venuto alla luce in Venezia l'Orlando innamorato del conte Matteo Maria Boiardo, ristampato nove anni dopo coll'aggiunta del terzo libro nel suo stesso castello di Scandiano; e l'Ariosto rapito dalla lettura di quel poema, ove con vena inesauribile d'immaginazione s'intrecciano meravigliose avventure d'amore alle più splendide prove di valorosi paladini, rivolse ogni studio ai romanzi e poemi cavallereschi, traducendone alcuni de' spagnuoli e francesi nella lingua italiana per proprio esercizio. E perchè l'Orlando innamorato rimase imperfetto per la morte dell'autore, s'accinse egli a continuarlo, trattovi fors'anche da un sentimento d'affetto verso il luogo natìo, che facea riguardargli il Boiardo come suo conterraneo. Nel 1507 Lodovico aveva condotto molto avanti il suo Orlando furioso, ed essendo stato spedito a Mantova per consolarsi del felice parto della marchesana Isabella a nome del cardinale di lei fratello, gliene lesse una parte che le «fece passare due giorni non solo senza fastidio, ma con piacere grandissimo»[37].

      Al duca Ercole, morto il 25 gennaio 1505, è dovuto il merito di aver promosso in Ferrara il teatro italiano con aver ordinato al Boiardo, a Niccolò da Correggio, al Collenuccio, al Pistoia, al Guarino ecc., componimenti drammatici originali e tradotti specialmente da Plauto e da Terenzio, che faceva recitare talora da' suoi gentiluomini in una sala di corte sopra impalcato mobile adorno di bel scenario[38]; il che venne pure meritamente seguitato dal nuovo duca Alfonso I in tempo di carnevale e in altre feste straordinarie. E perchè l'Ariosto era stato sempre inclinato

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