I Guardiani Dei Desideri. Massimo Longo
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- È questo che ti inquieta tanto?
Elio fece silenzio.
- Parlami Elio, non posso aiutarti se ti ostini a non parlare.
- Il treno - sussurrò Elio.
- Il treno, cosa vuol dire il treno?
- Una copia di quel libro l’ho vista sul treno.
- Cosa trovi di strano in questo?
- Lo aveva uno strano tizio seduto nella fila accanto alla mia, mentre voi eravate nel vagone ristorante.
- Molti leggono mentre sono in viaggio.
- Ma non è un libro comune, non vedi? - si agitò Elio.
Effettivamente Gaia aveva notato la particolarità della copertina del libro e ne rimase ancora più stupita appena lo aprì.
Era scritto in una lingua a lei sconosciuta, le immagini, tutte in bianco e nero, raffiguravano personaggi strani, in una cornice di boschi e lune piene. Molte di quelle figure erano a dir poco angoscianti.
Gaia fece finta di non notarle, richiuse immediatamente il libro e lo lanciò in un angolo, cercando di simulare indifferenza.
- Dai su, è solo una coincidenza e quello è solo un vecchio libro.
Elio era già ripiombato nel silenzio, le sue orecchie ronzavano di nuovo.
La ragazza cercò di distrarre il fratello, sebbene quelle immagini spettrali non abbandonassero la sua mente.
- Dai, dammi una mano, spostiamo verso la luce queste casse e cominciamo a fare spazio sotto il lucernario, voglio sistemare lì il nostro letto. Purtroppo ci toccherà dormire nello stesso e io voglio addormentarmi guardando le stelle.
Lavorarono tutta la mattinata di buona lena. Gaia, con le sue chiacchiere, riuscì a distrarre Elio che dopo l’accaduto sembrava reagire con un po' di energia in più.
Passarono anche buona parte del pomeriggio a pulire sino a quando la zia li invitò a lavarsi, quella sera arrivava Ercole e bisognava festeggiare.
Libero aveva promesso di portarli a ballare, in paese si sarebbe svolta l’annuale festa della mietitura.
Si sentì provenire dall’esterno il suono del clacson del vecchio autobus che due volte alla settimana, dopo aver attraversato le varie frazioni partendo dalla città, arrivava in paese, gli scout lo utilizzavano per tornare dal campo che si era tenuto a Tresentieri, un bosco non troppo lontano.
Libero si lanciò fuori e, come suo solito, afferrò il fratello ancora con le spalle cariche di uno zaino decisamente fuori misura e lo fece volare trascinandolo sino all’uscio di casa dove, appena sfuggito alla sua morsa, si trovò in quella della madre.
Ercole era felice di questa manifestazione d'affetto, ma gli sembrava un po' troppo per un’assenza durata solamente cinque giorni.
Salutò affettuosamente con due baci sulla guancia Gaia, che trovava molto carina, mentre riservò un gelido “ciao” al cugino che riteneva responsabile della sparizione della tv e soprattutto dei suoi amati videogiochi.
Ercole era coetaneo di Gaia e rappresentava in tutto il mito di cui portava il nome: alto, muscoloso e atletico faceva parte della squadra di lotta libera del paese.
Aveva i capelli neri, rasati ai lati e a spazzola al centro, gli occhi scuri e la pelle olivastra, ma questo suo aspetto da duro non rispecchiava la sua vera natura di persona mite, incapace di serbare rancore.
Anticiparono la cena, per avere il tempo di prepararsi per la festa. Troppo forse, ma d’altronde la zia aveva preparato per l’occasione un pasto da nozze e bisognava avere il tempo di far scorrere tutte quelle pietanze per la tavola.
Dopo sarebbero stati pronti per smaltire tutto alla festa della mietitura.
Naturalmente, l'attesa più lunga fu a causa della preparazione delle due donne di casa. Elio aveva poca voglia, si sentiva già pronto così come si era vestito prima di colazione. Ercole mise un jeans e qualche chilo di gel sui capelli, impossibile capire dove fosse andato a finire.
Libero fu, tra gli uomini, quello che vi investì maggior tempo. Non uscì dalla sua camera finché non fu pronto. Sfavillava, indossava un paio di pinocchietti blu con sopra una camicia che gli Hawaiani avrebbero considerato eccessiva ma che su di lui non sfigurava.
Gli occhi gli brillavano, era una delle feste che adorava di più.
Appena tutti furono pronti, Elio tentò invano di sottrarsi a quel supplizio, ma fu travolto dall’entusiasmo della zia che era quasi irriconoscibile. Indossava un abito nero a fiori, le scarpe con i tacchi, aveva i capelli sciolti ed il viso truccato. Lo prese sottobraccio e lo scortò fuori casa.
Lungo la via si potevano ammirare, oltre alle classiche luci e bandierine colorate, le decorazioni che quell’anno gli organizzatori della festa avevano realizzato.
Sui bordi delle strade, balle di fieno quadrate, rettangolari, insomma di tutte le forme e dimensioni, decoravano il paese.
In centro, il monumento dei caduti era circondato da enormi ruote di paglia.
La piazza principale aveva un palco su cui la banda chiamata a suonare sistemava i propri strumenti.
Attorno all'area di ballo, le sedie già ospitavano gli anziani che chiacchieravano aspettando di godere della vista dei giovani che avrebbero ballato al centro. Già i più piccoli correvano per la pista da ballo imitando i più grandi che fra poco li avrebbero con delicatezza evitati durante le danze.
La chiacchiera principale quella sera era dedicata all’arrivo in paese di Gaia e Elio, i figli di Carlo e Giulia. Gli anziani e gli adulti ricordavano a vicenda gli accadimenti degli anni trascorsi in paese dai due.
Come al solito, le discordanze erano varie: chi li ricordava come scavezzacolli, altri come bravi ragazzi, mentre i vecchi amici di scuola per le giornate marinate in cui si perdevano per i campi a giocare e a non far niente.
Chi riconosceva nel viso di Elio suo padre, chi in Gaia, chi sconoscendo in entrambi qualunque somiglianza, indicava come colpevoli i nonni.
Iniziarono gli strombazzi della banda per riscaldare gli strumenti. Tutto era quasi pronto. Il presentatore, o per meglio dire l’uomo che ogni anno si occupava di parlare dal palco, invitò le solite autorità del paese a salire.
Finì il discorso e anche i ringraziamenti agli sponsor, nel più assoluto disinteresse dei cittadini che cominciavano a sbadigliare. Adesso applaudivano nella speranza che avessero finito e lasciassero suonare la banda.
All’annuncio dell’abbandono del palco dello pseudo-presentatore partì il più forte degli applausi. Il maestro fece un piccolo salto e, con un movimento della mano, agitò la bacchetta facendo partire lo stacco dei tromboni che diedero il via alla musica, seguiti, a tempo, prima dalla batteria, poi dai sassofoni e per ultimo dai clarinetti.
Il primo a buttarsi in pista fu Libero, insieme alla sua compagna preferita con cui apriva ogni anno le danze. A differenza di quanto si possa pensare dalla descrizione