Non Chiamarli. Carlos Ramos

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Non Chiamarli - Carlos Ramos

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la strada ci hanno consigliato di fare molta attenzione, perché in molti si erano persi, invece altri erano riusciti a trovare anche del denaro, preferimmo scendere per via dei vari dolori che accusavamo.

      Ci dovemmo fermare per raccogliere delle bacche e passarcele lungo il corpo, come si era soliti fare per scacciare gli spiriti maligni. Gli altri iniziarono a “pulirsi” ma io non lo feci perché sentì che molto vicino stava passando un camion, quindi preferì correre dietro al rumore. Era un furgoncino che trasportava una famiglia intera, gli spiegai da dove venivamo e gli chiesi di portarci dove erano diretti loro, altrimenti avremmo dovuto camminare molto.

      Quando tornammo a casa era già tardi, ero esausto, così mi feci il bagno e a breve il sonno prese il sopravvento. Prima di mettermi a dormire sentì una voce cavernosa che mi parlava in un’altra lingua, però compresi ciò che stesse dicendo: unisciti a me. Mi si drizzarono i peli perché contemporaneamente sentì un rumore provenire dalla camera.

      Il mattino seguente il mio cane non mi riconosceva, fu estremamente difficile riuscire a portarlo fuori, perché scappava da me. Provavo una sensazione strana nei confronti del mondo. Sentivo tristezza e nostalgia per la collina. A volte desideravo soltanto dormire, come quando si soffre di depressione, tuttavia, non non mi sono mai trovato a doverla combattere. La seconda notte dopo essere entrato nella grotta, mi svegliai gridando. I miei genitori trascorsero molto tempo a farmi compagnia perché ero estremamente provato, non riuscivo nemmeno a muovermi e un’altra volta la voce, sei già qui. Stavo malissimo. I cani mi abbaiavano contro impauriti, il gatto del vicino gonfiava il pelo tutte le volte che lo incontravo ed io vedevo delle ombre intorno a me.

      Le voci e i rumori provenienti dal fondo della stanza continuarono, ero disperato a tal punto che scoppiai in lacrime perché mi faceva male la testa e continuavo a provare la strana sensazione di non appartenere più a questo mondo, di essere stato trasportato lentamente in un posto che non conoscevo. Non mangiavo, dicevano che ero pallido, smisi di vedere gli amici con cui mi ero recato alla grotta, non ero io o almeno non lo ero più.

      Non sono mai stato un tipo superstizioso, ma nella condizione in cui mi trovavo cominciai a credere che qualcosa mi avesse “colpito”, ma cosa esattamente? Era contraddittorio perché per rispondermi avrei dovuto supporre che esistono esseri, spiriti o qualsiasi altra cosa che va in giro a fare del male alla gente, che c’è vita dopo la morte, che c’è un intero mondo nascosto che può recare danni alle persone. Ciò mi causava grande confusione, tuttavia continuavo a star male, ogni volta sentivo delle voci che mi sussurravano intere frasi. In luoghi illuminati avevo paura, ero letteralmente terrorizzato di guardare sotto al letto perché c’era del rumore e la cosa decisamente più inquietante: sentivo che laggiù, in quella grotta, a diversi chilometri da me, qualcuno decideva della mia vita.

      Passavano i giorni e gli incubi si facevano sempre più persistenti. Vedevo delle ombre, non sono mai riuscito a scorgere i loro volti, mi dicevano di andare con loro. In seguito, ho iniziato a vederle anche mentre ero sveglio. Il mio cane mi morse una mano perché lo spaventavo. Non riuscivo a dormire bene, ero sempre agitato, mi sudavano le mani e tremavo.

      Alla fine mi portarono in ospedale perché peggioravo ogni giorno, tuttavia nemmeno le medicine riuscirono a donarmi un po’ di sollievo. Era insopportabile continuare in questo modo, più volte tentai di togliermi la vita o di uccidere ciò che si era impossessato del mio corpo, che era la stessa cosa, ma non ci riuscì. Perché tutti mi chiedevano: se questo mondo è ormai invivibile per me capirete perché penso al suicidio. Mi facevano sentire pazzo quando lo erano loro, per questo mi portarono dallo psicologo, ma presto si stufò di me, le voci in altre lingue non lo convincevano, la mia disperazione, il mio desiderio di porre un freno a tutta questa sofferenza lo fecero allontanare, pertanto decise di interrompere le sedute e io continuai a sentire le voci e a vedere le ombre.

      Poiché non davo alcun segno di miglioramento, decisero di portarmi da un tale noto per essere un guaritore. Entrando a casa sua, restai sorpreso per la quantità di flaconi, l’odore, il suo modo di vestire, il suo aspetto. Fece un cerchio con il fuoco e iniziò a “curarmi”. Mi disse che avevo ben quattro mali su di me, uno per ciascuna direzione, che si stavano impossessando di me, per farmi sparire del tutto. In quel preciso momento, i suoi pantaloni presero fuoco, qualche fiamma doveva averlo colpito, mi disse che ciò che portavo con me era molto forte, che si stava incarnando. Mi chiese di tornare poiché per un lavoro ben fatto servivano almeno altre quattro visite.

      Mi sentivo un po’ meglio, ma durante la notte continuavo a sentire questa voce: non c’è alcuna via d’uscita, ormai sei nostro,e poi come se qualcuno mi avesse costretto, andai in cucina, aprì il cassetto della credenza e presi il primo coltello che mi capitò, fallo non aver paura. Guardavo come il coltello entrava nella mia pelle, creava un solco tra la mia carne, non sentivo alcun dolore, il sangue scorreva lungo il mio braccio, poi passai all’altro polso, non sentivo nulla. Il pavimento si era colorato di rosso, ci hai chiamato, siamo qui, unisciti a noi.

      Quando riaprì gli occhi ero disteso su un letto con mani e piedi legati. Era tutto bianco, ma non si trattava di un ospedale, era una stanza improvvisata con qualche lenzuolo, sicuramente mi avevano dichiarato matto, suicida, un malato incurabile. Una signora stava a fianco a me. Passava casualmente per la strada e vide cosa stava succedendo dentro, si prese cura di me insieme alla mia famiglia. Prima di andarsene mi disse, vieni a sopprimere le ombre, cogli dei fiori dal tuo giardino, mi diede un indirizzo e se ne andò.

      Stavo talmente male che il giorno successivo mi portarono come meglio poterono nel posto che mi aveva indicato. Con grande sorpresa, ad aprirci era la stessa donna, ma quando ci salutò sentimmo che la sua voce era diversa. Mi chiese di sedermi su una sedia di legno, proprio sotto all’unico raggio di luce che entrava in quella stanza angusta, da lì era possibile vedere in lontananza la collina, quella della grotta. Si dirisse verso di me con una voce che non era quella del giorno precedente, né tanto meno quella della mattina. Mi disse di avermi parlato alla collina e che io non le avevo dato ascolto. Quella voce era la sua, non chiamarli per favore, in seguito ha messo diverse piante lungo la mia strada per allontanare il male, ma io non ne avevo approfittato ed era per questa ragione che mi sentivo così, perché c’erano cose brutte in quel posto. Con un’altra voce, mi disse che la tana, Xicuco, era pronta ad aiutarmi e che avevano chiamato la collina dell’Elefante per avere più forza nella battaglia.

      Non posso descrivere con esattezza ciò che stava accadendo. Stavo in uno stato di trance, era tutto molto confuso, le ombre volteggiavano intorno a me, i rumori andavano e tornavano, le voci non si fermavano, mi gridavano parolacce o mi imploravano. Persi la misura del tempo, non so nemmeno in quale momento mi sia alzato e ripetevo ciò che la signora mi diceva.

      Per l’ultima parte della guarigione avevano un ruolo centrale i fiori che colsi nel giardino. Li passò lungo il mio corpo per diverse volte, ancora e ancora, infine mi disse di lasciarli andare nel fiume. Quando me ne andai era tutto molto nitido, mi sentivo rinato, riuscivo a camminare da solo e non sentivo più alcun dolore. Mi recai al fiume e lasciai cadere i fiori, quando alzai lo sguardo vidi i tre anziani che mi avevano guarito, scomparvero in un batter d’occhio. Nella mia mente ho sentito, vieni, ma non chiamarli.

      Tláhuac, Città del Messico.

      16/marzo/2016

      A Claudia per averci aperto gli occhi su ciò che ci circonda

      Ciò che sto per raccontarvi ebbe inizio quando Claudia vide uno strano tipo in piedi tra il lavandino e il frigorifero; indossava una maglietta bianca, un paio di jeans e uno zaino nero. La mia vicina non ricorda di aver visto i suoi piedi. Mi disse che era uscita per vedere chi le avesse detto: “Buona sera”. Non vedemmo proprio nessuno. Cercammo in cortile, per le scale, fino all’ultimo piano, nel piccolo bagno sgangherato, in

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