Eros. Giovanni Verga

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Eros - Giovanni  Verga

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rispose senza alzare il capo: «Non lo so».

      «Eh, via!»

      «Non me l’ha mai detto.»

      «Certe cose non c’è bisogno di dirle.»

      «O come si fa allora?»

      L’altra la guardò ridendo: «Deve amarti moltissimo, perché sei carina davvero!»

      «Come sei bella tu!» esclamò Adele, buttandole le braccia al collo.

      Una carrozza s’avvicinava rapidamente; il bel giovanetto che c’era dentro levò, fra timido e sorridente, i grandi occhi azzurri verso la terrazza, fece un saluto un po’ imbarazzato, volse uno sguardo festoso, e arrossí leggermente.

      «Come s’è fatto grande!» esclamò sottovoce Adele, aggrappandosi, senza saper perché, al vestito della sua amica.

      «E un bel giovane» disse costei.

      «Aveva il sigaro in bocca, hai visto?»

      «Non è elegante, ma ha un’aria distinta. È marchese, non è vero?»

      «Sí, a momenti sarà qui.»

      Velleda rizzò il capo con un movimento impercettibilmente altero, civettuolo e grazioso al tempo istesso, e si mise a frustare i ramoscelli piú bassi con una bacchetta che aveva in mano.

      «Se fossi bella come te!» esclamò ingenuamente l’Adele, forse colpita da quel rapido corruscare della vanità, o forse rispondendo ai pensieri che le si affollavano in mente.

      La sua amica era infatti una magnifica bionda, aristocratica e delicata beltà, modellata come una Venere, e leggiadra come un figurino di mode, dalle folte e morbide chiome cinerine, dai grand’occhi azzurri e dalle labbra rugiadose; sotto i suoi guanti grigi celava unghie d’acciaio, colorate di rosa; il suo stivalino sembrava animato da fremiti impazienti, e con quel suo tacco alto, con quella sua curva elegante, avea l’aria di gentile arroganza, come se sentisse di render beata l’erba che calpestava; il sorriso di lei era affascinante, lo sguardo profondo ed un po’ altero, l’accento carezzevole, il vestito avea artificiose semplicità, e la blonda pudiche civetterie – ecco che cosa era quella fanciulla che frustava i ramoscelli con un virgulto di salcio, e che si chiamava Velleda, al modo stesso che era bionda, che era capricciosa, che era elegante, e che un bel fiore da stufa ha un bel nome straniero. Ella sembrava sopraffare la verginale leggiadria della sua amica col semplice portamento superbo del capo, o con un solo de’ suoi sorrisi affascinanti. Adele era magrina, delicata, pallidetta, cosí bianca che sembrava diafana, e che le piú piccole vene trasparivano con vaga sfumatura azzurrina; avea grand’occhi turchini, folte trecce nere, mani candide e un po’ troppo affusolate; il vento, innamorato, modellava le vesti sul suo corpiccino svelto e gentile come una statua d’Ebe; i movimenti di lei avevano certa elasticità carezzevole e felina; – accanto a ciò una timidità quasi selvaggia, un sorriso spensierato, e dei rossori improvvisi. Un conoscitore avrebbe indovinato nella leggiadria modesta e quasi infantile della fanciulla il prossimo sbocciare di una bellezza tale da rivaleggiare con quella della superba bionda; ma Alberto non era conoscitore, e allorché la cuginetta gli corse incontro stendendogli le mani e salutandolo col suo grazioso rossore, i capelli biondi, la veste di seta, e lo sguardo da regina dell’altra gli si gettarono, direi, alla testa, in un lampo. Povera Adele! se avesse potuto udire il ronzío di tutti quei calabroni inquieti che si destavano nella mente di Alberto, mentre ella credeva di fare una presentazione in regola, dicendo: «Mio cugino!» «La signorina Velleda!»

      La signorina Velleda fece una bella riverenza da ballo, ed Alberto se ne rammentò scrivendo il giorno stesso all’amico Gemmati: “Se avessi visto con quanta grazia inchinandosi spingeva indietro il suo vestito!”.

      Velleda andava innanzi, giocherellando sempre colla sua bacchettina a mo’ di frustino, un po’ da bambina capricciosa, un po’ da leggiadra civettuola. Allo svoltar d’un viale scomparve.

      Adele, che chiacchierava col cugino, tutta giuliva, arrossí improvvisamente, ed Alberto se ne avvide.

      «Che hai?» le domandò.

      «Il babbo non sa nulla del tuo arrivo… cerco di vederlo.»

      Il babbo li vedeva benissimo dalla sua finestra, e si fregava le mani.

      Al rammentarsi dello zio il giovane si fe’ scuro in viso, e pensò agli esami andati a monte. Ma lo zio, ch’era il miglior zio del mondo, abbracciò teneramente il nipote, come se costui non avesse delle palle nere sulla coscienza; anzi a tavola comparve un certo fiasco di vecchio chianti, di quel delle grandi occasioni, e se l’avessero lasciato fare, lo zio avrebbe fatto crepare il nipote di indigestione, per provargli la sua tenerezza. L’Adele fu ciarliera e taciturna a sproposito, la signorina Manfredini disinvolta e piena di brio, Alberto un po’ imbarazzato, un po’ distratto, e di quando in quando aveva certi assalti di allegria che gli montavano al viso, gli luccicavano negli occhi e si risolvevano in bizzarre effusioni di affetto per lo zio Bartolomeo.

      «La bella luna!» esclamò Adele affacciandosi alla finestra. «O che non si va in giardino?»

      Velleda, interrogata a quel modo, si mise a ridere.

      «Vacci anche tu» disse lo zio ad Alberto, che non faceva le viste di muoversi.

      «E lei, zio?»

      «O cosa vuoi che venga a farci io? Ci ho il mio giornale da digerire. Vai pure.»

      IV

      Le due ragazze irruppero in giardino allegre e chiassose; la luna sembrava inondarle di un pallido chiarore, traeva dei riflessi turchinicci dai capelli di Adele, dava un che di vaporoso a quelli di Velleda, luccicava sulla seta, giocava colle ombre, frastagliavasi fra i cespugli, disegnava nettamente in bianco i viali; il cielo era terso, leggermente azzurro; le gaie voci e gli allegri scrosci di risa avevano cristalline sonorità.

      «Sono stanca!» disse Adele lasciandosi andare su di un sedile, e raccolse la sua vesticciuola volgendosi verso di Alberto con un tacito invito; costui che chiacchierava spensieratamente tacque all’improvviso.

      «Ho dimenticato il mio scialletto» disse Velleda con singolare vivacità.

      «Andrò a prenderlo» rispose premuroso Alberto.

      La ragazza non poté dissimulare un sorriso maliziosetto.

      «Grazie, non s’incomodi» rispose, e partí correndo.

      Adele s’era ritirata in là per far posto al cugino accanto a lei; ma egli si mise a passeggiare innanzi e indietro, gettando di tempo in tempo sguardi avidi e imbarazzati sul sedile.

      «Vuoi metterti a sedere?» diss’ella.

      «No… grazie… non ti comoda?»

      «Che!»

      Ella si mise a strappare le foglie del rosaio. Alberto accavallava ora una gamba ora l’altra, guardava gli alberi, il viale, la punta dei suoi stivali, e non sapeva che farsene delle mani.

      «Mi permetti di fumare?» disse dopo un lungo silenzio, e come se avesse fatto una grande scoperta.

      «Fai pure.»

      Egli trionfante accese un sigaro, e si diede a buffare il fumo con enfasi.

      «Ti dà noia il fumo?» le domandò.

      «No»

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