Eros. Giovanni Verga

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Eros - Giovanni  Verga

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che fa lei costà, cosí mattiniera?»

      «Lo vede, faccio dei mazzolini.»

      «Per chi?»

      «Pel babbo.»

      «E poi?»

      «Per Velleda.»

      «E poi?»

      «E poi… per chi se li merita.»

      Egli alzò il naso in aria, mandò un grosso buffo di fumo, e disse:

      «È una bella giornata.»

      «Sí» rispose la fanciulla asciutto asciutto.

      Adele andava e veniva fra gli alberi, chinandosi ad ogni istante sulle aiuole con una vivacità infantile e graziosa che era tutta sua. Alberto la guardava in silenzio. Di tanto in tanto ella pure guardava lui, cercando di non farsi scorgere, con una tal cera dispettosetta.

      «Ha dormito bene?» domandò finalmente.

      «Benissimo, grazie.»

      «E vuol dormire ancora?

      «No… perché?»

      «Vieni ad aiutarmi dunque!»

      «Vengo subito, cuginetta.»

      Vedendolo venire ella si diede un gran da fare per assortire i fiori, e il giovane sentí sfumare in un attimo la grande audacia con la quale le avea quasi chiesto un mazzolino.

      «Il babbo è andato lassú, alla Sassosa, alla vigna.»

      «Oh davvero?»

      «Quest’anno avremo una famosa vendemmia!»

      «Sí?»

      «L’ha detto il fattore!»

      «Lui può saperlo.»

      «E il babbo è contento. Ti piace codesto fiore?» riprese poscia l’Adele saltando da un discorso ad un altro.

      «Bellino! come si chiama?»

      «Non rammento; è un nome forestiero.»

      «Dev’esser un fior raro.»

      Ella stava per rispondere, ma vide che il cugino guardava piú la mano che il fior raro, e arrossí.

      «Che bella aiuola!» diss’egli per non farsi scorgere.

      «Sai cosa c’era qui prima? la piazzetta dove noi si giocava a volano! Ti ricordi?»

      «Com’è cambiato!»

      «Anche tu sei cambiato!» rispose ella senza alzare gli occhi.

      Ei rispose dopo un istante: «E anche tu!».

      E sorrisero entrambi.

      «Andiamo a svegliare Velleda, la pigra!» disse Adele tutta rossa in viso.

      Le finestre del pianterreno non erano molto alte dal suolo, ma la povera fanciulla si rizzò invano sulla punta dei suoi piedini: «Bussa tu» disse ad Alberto. Egli picchiò due colpetti timidi.

      «Chi è?» si udí rispondere da una voce la quale aveva tuttora alcunché d’addormentato e di voluttuoso.

      «Sono i miei fiori, che vengono a darti il buon giorno, dormigliona!»

      Le stecche della persiana si schiusero alquanto; i raggi del sole vi s’insinuarono con una certa avidità e si disegnarono in strisce luminose su di una bella figura bianca, sul braccio roseo che si appoggiava al davanzale, sui capelli color d’oro, leggermente ondati, che cadevano mollemente sull’accappatoio. Velleda accostò il viso alla persiana, e si videro luccicare i suoi begli occhi; ma scorgendo Alberto, si tirò indietro bruscamente, e chiuse del tutto, dicendo: «Vengo subito».

      «Non lo vuoi?» domandò un po’ crucciata l’Adele ad Alberto che rimaneva cogli occhi fissi sulla persiana chiusa, senza accorgersi del mazzolino che gli dava la cugina

      «Dunque me lo merito anch’io?» diss’egli sorridendo.

      «Presuntuoso!»

      Passando sotto la finestra del cugino, Adele alzò gli occhi e stette a guardarla.

      «Vedi com’è bello quel gelsomino che s’arrampica sino al tuo davanzale?»

      «Perché fai cosí tardi alla sera?» riprese dopo breve pausa.

      «Come lo sai?» Ella arrossí.

      «…Me l’hanno detto» rispose.

      Quel rossore fece dileguare in un lampo dalla mente di Alberto la leggiadra apparizione ch’egli avea scorto dietro la persiana e che luccicava ancora nel suo pensiero, come un raggio di sole irradiasi, anche dopo chiusa, nella pupilla che abbagliò. Egli levò gli occhi a quella finestra di faccia alla sua, dove la sera innanzi gli era sembrato veder del lume, esitò un istante, ma non aprí bocca. Sembravagli sentire tremare il braccio di lei, e che vaghi rossori fuggitivi le passassero con una trasparenza alabastrina, sul bel viso che teneva chino, e sul collo delicato.

      S’erano seduti sotto il pergolato. Ella gli parlava con quella dolce favella della fanciulla toscana che somiglia a cinguettio d’uccelletto; sorrideva, arrossiva, giocherellava cogli sgonfietti del suo vestito e colle foglie del pergolato; era tutta festante, e si voltava ad ogni momento per veder comparire Velleda che non veniva mai. Le ombre delle frondi sembravano accarezzarla alternando la luce sul suo viso; il venticello, di tanto in tanto, faceva strisciare leggermente il lembo della sua veste sui piedi di lui. Egli respirò con forza, quasi con voluttà, e sorrise; ella respirò del pari e sorrise.

      «O perché?» gli domandò ancora sorridente.

      «Sento allargarmisi i polmoni.»

      «È l’aria montanina.»

      «Come fa bene!»

      «Non è vero!» e si tacquero.

      «Ti piace la campagna?» riprese ella poco dopo.

      «Sí.»

      «Ci starai volentieri?»

      «Volentierissimo.»

      «A me piace tanto!» esclamò ella battendo le mani tutta sorriso.

      «Ti piace stare a guardare la luna dalla finestra?» domandò tutt’a un tratto e bruscamente il cugino, come rispondendo ad un pensiero insistente.

      «Sí…»

      «Anche a me!» e divenne pensieroso.

      «Non ti par di voler amare la luna?» riprese quindi con certi occhi che luccicavano singolarmente; «e che quella dolce luce ti piova sul viso come rugiada, e ti rinfreschi il sangue, e ti accarezzi le chiome, e che le stelle scintillino come occhi innamorati, e che il venticello notturno baci mormorando le foglie e i fiori, e che i fili d’erba si agitino in leggiadri abbracciamenti, e che i tuoi sguardi cerchino lassú, in quella pallida luce, gli sguardi della donna…

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