In Silenzio. Luigi Pirandello
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Dal 13 di febbrajo del 1861 al 15 di marzo del 1862, cinque balie. La prima e la seconda, cambiate perché scarse di latte; la terza, perché nel fargli il bagno, una mattina, lo tuffa nell’acqua ancor quasi bollente, scordandosi di temperarla. Scottatura di secondo grado. È per morirne; Dio misericordioso non vuole; ma gli muore, invece, la madre. La quarta balia lo lascia cadere tre volte dal letto, e non di più; e gli fa poi ruzzolare la scala, insieme con lei, una volta sola. Ferite di poco conto: la più grave, rottura dell’osso del naso.
A nove anni, dopo aver sofferto tutte le malattie, che sono come i gradini per cui dalla tenera infanzia – con l’ajuto del medico da un lato e del farmacista dall’altro – si sale alla vispa fanciullezza, Cosmo Antonio Corvara Amidei, animato da fervido zelo religioso, entra in seminario.
Pochi giorni prima d’entrarvi, seguendo alla lettera una delle sette opere corporali di misericordia, s’era spogliato d’un bell’abituccio nuovo che il babbo gli aveva portato da Napoli; ne aveva vestito un povero ragazzetto che se ne stava su la spiaggia ignudo nato, ed era ritornato a casa col solo berrettino da marinajo in capo. In compenso, il babbo gli aveva detto tante belle cose, imbecille, somaro, scimunito, e gli aveva carezzato con tanto slancio gli orecchi, che per miracolo non glieli aveva strappati.
In seminario Cosmo Antonio Corvara Amidei studia e attende alle pratiche religiose con grandissimo fervore; tanto che – a sedici anni – minaccia di dare in tisico. Tutt’a un tratto, però, quando ha già preso i primi ordini religiosi, gli avviene d’impuntarsi in questo passo del trattato De Gratia:
«Si quis dixerit gratiam perseverantiae non esse gratis datam, anathema sit.»
Perché la perseveranza, per il caso che qualcuno volesse saperlo, è – secondo la teologia cattolica cristiana – una grazia che Dio concede a chi vuol salvare, senza attenzione ai meriti o ai demeriti del salvando.
Deus libere movet, dice San Tommaso.
Cosmo Antonio Corvara Amidei ci ragiona su ben bene parecchie settimane, e una notte alla fine vien sorpreso in camicia, con una candela in mano, infocato in volto, con gli occhi sbarrati, brillanti di febbre, che va cercando per il dormitorio una chiave.
Che chiave?
La chiave della perseveranza.
È ammattito. Per fortuna, gli sopravviene la meningite. Esce dal seminario. Un mese tra la vita e la morte.
Quando alla fine può riaversi, ha perduto la fede; ma pare che abbia perduto anche tant’altre cose: i capelli, intanto, la parola, un po’ anche la vista; non si ricorda più di nulla e sta, circa un anno, intronato e come levato di cervello. Si riscuote a furia di trombate d’acqua alla schiena; e, a ventidue anni e qualche mese, può presentarsi agli esami di licenza liceale e andare a Napoli, all’Università, per addottorarsi in lettere e filosofia, calvo, mezzo cieco e col naso schiacciato dalla caduta infantile.
Nell’ottobre del 1887 ottiene, per concorso, il posto di reggente nel ginnasio inferiore di Sassari. I ragazzi, si sa, sono vivaci; il professore è brutto e non ci vede molto: dunque, baldoria; e, per conseguenza, continue riprensioni del direttore del ginnasio al subalterno che non sa tenere la disciplina. Ma anche per le vie di Sassari il professor Cosmo Antonio Corvara Amidei è sbeffeggiato da tutti i monelli, finché non viene un collega, Dolfo Dolfi, professore di scienze naturali, che prende a proteggerlo in iscuola e fuori; anzi fa di più: lo invita ad accasarsi con lui (novembre del 1888).
Dolfo Dolfi entra tardi nell’insegnamento, senza titoli, senza concorso, per protezione d’un deputato autorevolissimo, dopo aver fatto l’esploratore in Africa e per tant’anni a Genova il giornalista: s’è battuto una diecina di volte, e ne ha prese e ne ha date, più date che prese; è libero pensatore, e ha con sé una figliuola naturale, a cui ha imposto questo magnifico nome: Satanina.
Protetto da Dolfo Dolfi, Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe finalmente rifiatare, ma non può: il suo protettore non gliene lascia il tempo: gli parla de’ suoi viaggi, delle sue campagne giornalistiche, de’ suoi duelli; gli narra le sue innumerevoli, straordinarie avventure, e vuole anche discutere con lui di filosofia, di religione, ecc. ecc. Bestialità, con tanto di petto in fuori. (Nota bene: Dolfo Dolfi ha la faccia piena di nèi e, parlando, se li arriccia tutti; una gamba qua, una gamba là.) Cosmo Antonio Corvara Amidei si fa piccino piccino, man mano che quegli le sballa più grosse, e approva, approva senza mai contraddire. Egli ormai è ben protetto, non si nega; gli alunni e i monellacci di strada per paura del Dolfi lo lasciano in pace; ma è vero altresì ch’egli non è più padrone di sé, del suo tempo, del suo misero stipendiuccio di professore di ginnasio inferiore. Se ha bisogno imprescindibile di qualche soldino, deve domandarlo a Satanina, e la ragazza, che ha già quindici anni e fa da mammina, glielo dà con gran mistero, raccomandandogli di non farne sapere nulla, per carità, al babbino, ché altrimenti vorrebbe anche lui la sua parte per i minuti piaceri, e dove s’andrebbe a finire?
Buona ragazza, Satanina; tanto che Cosmo Antonio Corvara Amidei vorrebbe chiamarla più brevemente e graziosamente Nina, Ninetta; ma Dolfo Dolfi non vuole.
– Che Nina! Che Niinetta! Satana, si chiama Satana:
Salute, o Satana,
O ribellione,
O forza vindice
Della ragione
Si va avanti così tre anni.
Tutti domandano al professor Corvara Amidei come faccia a andar d’accordo con quella bufera d’uomo che è il professor Dolfo Dolfi; egli si stringe nelle spalle; apre le mani e abbozza un sorriso squallido, socchiudendo gli occhi; perché con quella domanda – è facile intenderlo – la gente vorrebbe farlo capace della sua imbecillità.
Eh sì; Cosmo Antonio Corvara Amidei, in fondo, sarebbe anche disposto a ammettere la propria imbecillità; non ne è però al tutto convinto, giacché, a pensarci bene, gli pare che sia forse alquanto più imbecille di lui la vita in genere, ecco; e che non valga perciò la pena d’essere o d apparire accorti o scaltri, massime quand’essa dimostri con tanta perseveranza l’impegno di volerla proprio pigliare coi denti contro di uno. In questo caso, bisogna lasciarla fare la vita, ché un fine forse – nascosto – lo ha; e, se non ha un fine, avrà pure una fine, questo è certo
L’ebbe, difatti, un bel giorno e d’improvviso, la fine. Ma non per lui, ahimé! Per il professor Dolfo Dolfi. Colpo apoplettico fulminante, mentre faceva lezione (16 marzo 1891)
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