In Silenzio. Luigi Pirandello
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– Buona passeggiata, allora, – disse. – E serva sua!
Superata l’erta, il dottore si fermò, per riprender fiato. Poche altre povere casette di qua e di là e il paese finiva; la viuzza immetteva nello stradone provinciale, che correva diritto e polveroso per più d’un miglio sul vasto altipiano, tra le campagne: terre di pane, per la maggior parte, gialle ora di stoppie. Un magnifico pino marittimo sorgeva a sinistra, come un gigantesco ombrello, meta ai signorotti di Farnia delle consuete loro passeggiate vespertine. Una lunga giogaja di monti azzurrognoli limitava, in fondo in fondo, l’altipiano; dense nubi candenti, bambagiose, stavano dietro ad essi come in agguato: qualcuna se ne staccava, vagava lenta pel cielo, passava sopra Monte Mirotta, che sorgeva dietro Farnia. A quel passaggio, il monte s’invaporava d’un’ombra cupa, violacea, e subito si rischiarava. La quiete silentissima della mattina era rotta di tratto in tratto dagli spari dei cacciatori al passo delle tortore o alla prima entrata delle allodole; seguiva a quegli spari un lungo, furibondo abbajare dei cani di guardia.
Il dottore andava di buon passo per lo stradone, guardando di qua e di là le terre aride, che aspettavano le prime piogge per esser lavorate. Ma le braccia mancavano, e spirava da tutte quelle campagne un senso profondo di tristezza e d’abbandono.
Ecco laggiù la Casa della Colonna, detta così perché sostenuta a uno spigolo da una colonna d’antico tempio greco, corrosa e smozzicata. Era una catapecchia, veramente; una roba, come i contadini di Sicilia chiamano le loro abitazioni rurali. Protetta, dietro, da una fitta siepe di fichidindia, aveva davanti due grossi pagliai a cono.
– Oh, della roba! – chiamò il dottore, che aveva paura dei cani, fermandosi davanti a un cancelletto di ferro arrugginito e cadente.
Venne un ragazzotto di circa dieci anni, scalzo, con una selva di capelli rossastri, scoloriti dal sole, e un pajo di occhi verdognoli, da bestiola forastica.
– C’è il cane? – gli domandò il dottore.
– C’è, ma non fa niente: conosce, – rispose il ragazzo.
– Sei figlio di Rocco Trupìa, tu?
– Sissignore.
– Dov’è tuo padre.
– Scarica il concime, di là, con le mule.
Sul murello davanti la roba stava seduta la madre, che pettinava la figliuola maggiore, la quale poteva aver presso a dodici anni, seduta su un secchio di latta, con un bambinello di pochi mesi su le ginocchia. Un altro bambino ruzzava per terra, tra le galline che non lo temevano, a dispetto d’un bel gallo che, impettito, drizzava il collo e scoteva la cresta.
– Vorrei parlare con Rocco Trupìa, – disse il giovane dottore alla donna. – Sono il nuovo medico del paese.
La donna rimase un tratto a guardarlo, turbata, non comprendendo che cosa potesse volere quel medico da suo marito. Si cacciò la camicia ruvida dentro il busto, che le era rimasto aperto da che aveva finito d’allattare il piccino, se lo abbottonò e si levò in piedi per offrire una sedia. Il medico non la volle, e si chinò a carezzare il bamboccetto per terra, mentre l’altro ragazzo scappava a chiamare il padre
Poco dopo s’intese lo scalpiccio di grossi scarponi imbullettati, e, di tra i fichidindia, apparve Rocco Trupìa, che camminava curvo, con le gambe larghe ad arco, e una mano alla schiena, come la maggior parte dei contadini.
Il naso largo, schiacciato, e la troppa lunghezza del labbro superiore, raso, rilevato, gli davano un aspetto scimmiesco; era rosso di pelo, e aveva la pelle del viso pallida e sparsa di lentiggini; gli occhi verdastri, affossati, gli guizzavano a tratti di torvi sguardi, sfuggenti.
Sollevò una mano per spingere un po’ indietro su la fronte la berretta nera, a calza, in segno di saluto.
– Bacio le mani a vossignoria. Che comandi ha da darmi?
– Ecco, ero venuto – cominciò il medico, – per parlarvi di vostra madre.
Rocco Trupìa si turbò:
– Sta male?
– No, – s’affrettò a soggiungere quello. – Sta al solito; ma così vecchia, capirete, lacera, senza cure…
Man mano che il dottore parlava, il turbamento di Rocco Trupìa cresceva. Alla fine, non poté più reggere, e disse:
– Signor dottore, mi deve dare qualche altro comando? Sono pronto a servirla. Ma se vossignoria è venuto qua per parlarmi di mia madre, Le chiedo licenza, me ne torno al lavoro.
– Aspettate… So che non manca per voi, – disse il medico, per trattenerlo. – M’hanno detto che voi, anzi…
– Venga qua, signor dottore, – saltò su a dire Rocco Trupìa improvvisamente, additando la porta della roba. – Casa da poverelli, ma se vossignoria fa il medico, chi sa quante altre ne avrà vedute. Le voglio mostrare il letto pronto sempre e apparecchiato per quella… buona vecchia: è mia madre, non posso chiamarla altrimenti. Qua c’è mia moglie, ci sono i miei figliuoli: possono attestarle com’io abbia loro comandato di servire, di rispettare quella vecchia come Maria Santissima. Perché la mamma è santa, signor dottore! Che ho fatto io a questa madre? Perché deve svergognarmi così davanti a tutto il paese e lasciar credere di me chi sa che cosa? Io sono cresciuto, signor dottore, coi parenti di mio padre, è vero, fin da bambino; non dovrei rispettarla come madre, perché essa è sempre stata dura con me; eppure l’ho rispettata e le ho voluto bene. Quando quei figliacci partirono per l’America, subito corsi da lei per prendermela e portarmela qua, come la regina della mia casa. Nossignore! Deve far la mendica, per il paese, deve dare questo spettacolo alla gente e quest’onta a me! Signor dottore, Le giuro che se qualcuno di quei suoi figliacci ritorna a Farnia, io lo ammazzo per quest’onta e per tutte le amarezze che da quattordici anni soffro per loro: lo ammazzo, com’è vero che sto parlando con Lei, in presenza di mia moglie e di questi quattro innocenti!
Fremente, più che mai sbiancato in volto, Rocco Trupìa si forbì la bocca schiumosa col braccio. Gli occhi gli s’erano iniettati di sangue.
Il giovane dottore rimase a guardarlo, sdegnato.
– Ma ecco – poi disse, – perché vostra madre non vuole accettare l’ospitalità che le offrite: per codesto odio che nutrite contro i vostri fratelli! È chiaro.
– Odio? – fece Rocco Trupìa serrando le pugna indietro e protendendosi. – Ora sì, odio, signor dottore, per quello che hanno fatto patire alla loro madre e a me! Ma prima, quando erano qua, io li amavo e rispettavo come fratelli maggiori. E loro, invece, due Caini per me! Ma senta: non lavoravano, e lavoravo io per tutti; venivano qua a dirmi che non avevano da cucinare la sera; che la mamma se ne sarebbe andata a letto digiuna, e io davo; s’ubriacavano, scialacquavano con le donnacce, e io davo; quando partirono per l’America, mi svenai per loro. Qua c’è mia moglie che glielo può dire.
– E allora perché? – disse di nuovo, quasi a sé stesso il dottore.
Rocco Trupìa ruppe in un ghigno
– Perché? Perché mia madre dice che non sono suo figlio!
– Come?
– Signor dottore, se lo faccia spiegare da lei. Io non ho tempo da perdere: gli uomini di là mi aspettano con le mule cariche di