In Silenzio. Luigi Pirandello

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In Silenzio - Luigi  Pirandello

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E le sue ragioni, capisci? Vuol far valere…

      – Lui? E chi può dar ragione a lui?

      – È il padre. Ma mi può togliere forse Ninnì ora? L’ho cacciato via, come un cane! Gli ho detto che… che m’ha ucciso la madre… e che l’ho raccolto io, il bambino… e che ora è mio, è mio; e nessuno me lo può strappare dalle braccia! Mio! Mio!… Guarda un po’… Miserabile… assa… assassino…

      – Ma sì! Ma certo! Si calmi, signorino! – gli disse Rosa, più afflitta e costernata di lui. – Mica con la forza potrà venire a prenderglielo, il bambino. Lei avrà pure le sue ragioni da far valere. E vorrei veder questa, ora, che ci levassero Ninnì che abbiamo allevato noi. Ma stia tranquillo, che non si farà più vedere, dopo la degna accoglienza che lei gli ha fatta.

      Né queste, però, né altre assicurazioni che la buona vecchia ripeté durante tutta la sera, valsero a tranquillare Cesarino. Il giorno dopo, là, al Ministero, provò un vero, eterno supplizio. A mezzogiorno, scappò a casa, trepidante, col cuore in gola. Non voleva più ritornare all’ufficio per le tre del pomeriggio; ma Rosa lo spinse ad andare, promettendogli che avrebbe tenuto la porta sprangata e non avrebbe aperto a nessuno e che non avrebbe lasciato Ninnì neanche per un minuto. Così egli andò; ma rincasò alle sei, senza recarsi al collegio per la ripetizione a gli scolaretti.

      Nel vederselo davanti come uno stordito, così abbattuto e costernato, Rosa cercò in tutti i modi di scuoterlo. Ma invano. Aveva un presentimento Cesarino, che gli rodeva l’anima e non gli dava requie. Passò insonne tutta la nottata.

      Il giorno appresso, non ritornò a casa a mezzodì per il desinare. La vecchia Rosa non sapeva come spiegarsi quel ritardo. Verso le quattro, finalmente, lo vide arrivare ansante, livido, con una fissità truce negli occhi.

      – Devo darglielo. M’hanno chiamato in questura. C’era anche lui. Ha mostrato le lettere di mia madre. È suo.

      Disse così, a scatti, senza alzar gli occhi a guardare il bimbo, che Rosa teneva in braccio.

      – Oh cuore mio! – esclamò questa, stringendosi al seno Ninnì. – Ma come? Che ha detto? Come ha potuto la giustizia?…

      – È il padre! È il padre! – rispose Cesarino. – Dunque è suo!

      – E lei? – domandò Rosa. – Come farà lei?

      – Io? Io, con lui. Ce n’andremo insieme.

      – Con Ninnì, da lui?

      – Da lui.

      – Ah, così?… tutt’e due insieme, allora? Ah, così va bene! Non lo lascerà… E io, signorino? Questa povera Rosa?

      Cesarino, per non risponderle direttamente, si tolse in braccio il piccino, se lo strinse al petto, e, piangendo, cominciò a dirgli:

      – La povera Rosa, Ninnì? Insieme con noi anche lei? Non è giusto! Non si può! Le lasceremo tutto, alla povera Rosa. Questa poca roba che è qua. Stavamo insieme tanto bene, tutt’e tre, è vero, Ninnì mio? Ma non hanno voluto… non hanno voluto…

      – Ebbene, – disse Rosa, inghiottendo le lagrime. – Si vuole affliggere così per me, adesso, signorino? Io sono vecchia; non conto più; Dio per me provvederà. Purché siano contenti loro… Del resto, dica: non potrò forse venire a trovarla, a vedere questo mio angioletto? Non mi cacceranno via, se verrò. Alla fin fine, perché non dev’essere così? Passato il primo momento, sarà forse anche un bene per lei, signorino, che le pare!

      – Forse, – disse Cesarino. – Intanto, Rosa, bisogna che tu prepari tutto, presto… tutto quello che abbiam fatto a Ninnì, le mie robe e le tue anche. Si va via stasera. Siamo aspettati a pranzo. Senti: io ti lascio tutto…

      – Che dice, signorino mio! – esclamò Rosa.

      – Tutto… tutto quel po’ che ho con me… in denaro. Ben altro ti debbo, per tutto l’affetto… Zitta, zitta! No ne parliamo. Tu lo sai, e io lo so. Basta. Anche quei pochi mobili… Noi troveremo di là un’altra casa… Tu farai di questa ciò che vorrai. Non mi ringraziare. Prepara tutto e andiamo via. Tu, prima. Non saprei andarmene, lasciandoti qua. Poi, domani, verrai a trovarmi, e io ti lascerò la chiave e tutto.

      La vecchia Rosa obbedì, senza rispondere. Aveva i cuore così gonfio che, ad aprir la bocca per parlare, singhiozzi, certo, e non parole le sarebbero venuti fuori. Preparò tutto, anche il suo fagotto.

      – Lo lascio qua? – domandò. – Tanto, se doman debbo ritornare…

      – Sì, certo, – le rispose Cesarino. – E ora, eccoti: bacia Ninnì… Bacialo, e addio.

      Rosa si prese in braccio il piccino che guardava un po’ sbigottito; ma non poté in prima baciarlo: bisognò che si sfogasse un pezzo, pur dicendo:

      – È una sciocchezza piangere… perché domani… Ecco a lei, signorino… se lo prenda. E coraggio, eh? Un bacio anche a lei… A domani!

      Se ne andò senza voltarsi indietro, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.

      Subito Cesarino sprangò la porta. Si passò una mano su i capelli, che gli si drizzarono, irti. Andò a posare Ninn sul letto: gli mise in mano l’orologino d’argento, perché stesse quieto. Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta: la donazione a Rosa della povera suppellettile di casa. Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio e al lume della lampadina che la vecchia Rosa teneva sempre accesa davanti un immagine della Madonna, si stese sul letto accanto a Ninnì. Questo allora lasciò cadere sul letto l’orologino, e – al solito – alzò la mano per strappare dal naso al fratello le lenti. Cesarino, questa volta, se le lasciò strappare; chiuse gli occhi e si strinse il bimbo al petto:

      – Quieto, ora, Ninnì, quieto… Facciamo la nanna bellino, la nanna.

      L’ALTRO FIGLIO

      – C’è Ninfarosa?

      – C è. Bussate.

      La vecchia Maragrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.

      Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Farnia. Lì seduta, o dormiva o piangeva in silenzio. Qualcuno, passando, le buttava in grembo un soldo o un tozzo di pane; ella si scoteva appena dal sonno o dal pianto; baciava il soldo o il pane; si segnava, e riprendeva a piangere o a dormire.

      Pareva un mucchio di cenci. Cenci unti e grevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati, sbrindellati, senza più colore e impregnati di sudor puzzolente e di tutto il sudicio delle strade. La faccia giallastra era un fitto reticcio di rughe, in cui le palpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare; ma, tra quelle rughe e quel sangue e quelle lagrime, gli occhi chiari apparivano come lontani, quelli d’un infanzia senza memorie. Ora, spesso, qualche mosca le si attaccava, vorace, a quegli occhi; ma ella era così sprofondata e assorta nella sua pena, che non l’avvertiva nemmeno; non la cacciava. I pochi capelli, aridi, spartiti sul capo, le terminavano in due nodicini pendenti su gli orecchi, i cui lobi erano strappati del peso degli orecchini massicci a pendaglio portati in gioventù. Dal mento, giù giù fin sotto la gola, la floscia giogaja era divisa da un solco nero che le sprofondava nel petto cavo.

      Le vicine, messe a sedere su l’uscio, non

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