In Silenzio. Luigi Pirandello
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– È poco, sì. Ma verrai la sera al collegio, all’uscita dal Ministero, per qualche lezioncina privata ai convittori, scolaretti del ginnasio inferiore. Vedrai che ti basterà. Tu sei bravo.
– Sissignore. Ma l’abito?
– Che abito?
– Non posso mica andare al Ministero vestito ancora da collegiale.
– Indosserai uno degli abiti che avevi prima d’entrare in collegio.
– Nossignore, non posso. Sono tutti come li voleva la mamma, coi calzoni corti. E poi, neanche neri.
Ogni difficoltà che gli si parava davanti (ed erano tante!), lo irritava, più che sbigottirlo. Voleva vincere; doveva vincere. Ma il dovere di farlo vincere pareva che spettasse agli altri, quanto più lui ne dimostrava la volontà. E al Ministero, se gli altri scrivani, tutti uomini maturi o vecchi, passavano il tempo a far la burletta, nonostante la minaccia dei capi che quell’ufficio di ricopiatura sarebbe stato soppresso per lo scarso rendimento che dava, egli dapprima s’agitava sulla seggiola, sbuffando, o pestava un piede, poi si voltava brusco a guardarli dal suo tavolino, battendo il pugno sulla spalliera della seggiola; non perché gli paresse disonesta quella loro stupida negligenza, ma perché, non sentendo l’obbligo di lavorare con lui e quasi per lui, lo mettevano a rischio di perdere il posto. Nel vedersi così richiamati al dovere da un ragazzo, era naturale che quelli ridessero e se lo pigliassero a godere. Balzava in piedi; minacciava d’andarli a denunziare; e faceva peggio; perché quelli, ecco, lo sfidavano a farlo; allora lui doveva riconoscere che, facendolo, avrebbe forse affrettato il danno di tutti. Restava a guardarli come se con le loro risate gli avessero squarciato il ventre; poi ricurvava le spallucce sul tavolino, e dalli a ricopiare, a ricopiare quante più carte poteva, a rivedere anche le poche ricopiate dagli altri per levarne via gli errori; sordo ai motteggi con cui quelli ora si spassavano a sbottoneggiarlo. Certe sere, perché il lavoro assegnato all’ufficio fosse terminato, usciva dal Ministero un’ora dopo tutti gli altri. Il Direttore se lo vedeva arrivare al collegio, trafelato ansante, con gli occhi induriti dalla fissità spasimosa che dava loro il pensiero di non bastare a difendersi dalle difficoltà e le contrarietà della sorte, a cui purtroppo s’univa anche la malignità degli uomini, adesso.
– Ma no, ma no, – gli diceva il Direttore, per confortarlo; e qualche volta anche lo rimproverava amorevolmente.
Non sentiva né i conforti né i rimproveri; come per via correndo, non vedeva mai nulla; la mattina, per trovarsi puntuale all’ufficio, venendo dalla casa lontana fuor di porta; a mezzogiorno, per ritornare fin là a desinare, e poi per ritrovarsi a tempo all’ufficio alle tre, sempre a piedi sia per risparmiare i soldi del tram, sia per la paura di mancare all’orario stando ad aspettare che quello passasse. Non ne poteva più, la sera. Si sentiva così stanco, che neanche la forza aveva di reggere in braccio Ninnì, stando in piedi. Doveva prima sedere.
Sul balconcino dalla ringhiera di ferro arrugginita, che gli era parso tanto bello dapprima là alla vista degli orti suburbani, ora, tenendo sulle ginocchia Ninnì, avrebbe voluto compensarsi delle corse, delle fatiche, delle amarezze di tutta la giornata. Ma il bimbo, che aveva già circa tre mesi, non voleva stare con lui, forse perché, non vedendolo quasi mai durante la giornata, ancora non lo riconosceva; fors’anche perché egli non lo sapeva tener bene in braccio; o perché aveva già sonno, come diceva la balia per scusarlo.
– Su, me lo ridia, gli farò far la nanna; e poi penserò a lei, per la cena.
Aspettando la cena, lì seduto sul balconcino, nell’ultima luce fredda del crepuscolo, guardando (senza neppur forse vederla) la fetta di luna già accesa nel cielo scialbo e vano; poi abbassando gli occhi sulla sudicia stradicciuola deserta costeggiata da una parte da una siepe secca e polverosa a riparo degli orti, si sentiva invader l’anima, in quella stanchezza, da uno squallore angoscioso; ma non appena il pianto accennava di pungergli gli occhi, serrava i denti, stringeva nel pugno la bacchetta di ferro della ringhiera, appuntava lo sguardo all’unico fanale della stradicciuola, a cui i monellacci avevano fracassato a sassate due vetri, e si metteva a pensar cose cattive, apposta, contro gli scolaretti del convitto, anche contro il Direttore, ora che non sentiva più di poter essere come prima fiducioso con lui, avendo capito che gli faceva il bene, sì, ma quasi più per sé, per il compiacimento di sentirsi, lui, buono; il che gli dava adesso, nel riceverne quel bene, come un impiccio d’umiliazione. E quei compagni d’ufficio, coi loro sudici discorsi e certe sconce domande che avrebbero voluto avvilirlo di vergogna: «se e come faceva; se l’aveva mai fatto». Ed ecco, un improvviso convulso di lagrime lo assaliva al ricordo d’una sera che, andando al solito di furia per via, come un cieco, aveva inciampato in una donnaccia di strada la quale, subito, fingendo di pararlo, se l’era premuto al seno con tutte e due le braccia, costringendolo così a cogliere con le nari sulla carne viva, oscenamente, il profumo, quel profumo stesso della sua mamma; per cui s’era strappato da lei, mugolando, ed era fuggito via. Gli pareva ora di sentirsi frustato dal dileggio di quelli: «Verginello! Verginello!», e tornava a stringere nel pugno la bacchetta della ringhiera e a serrare i denti. No, non avrebbe potuto mai farlo, lui, perché sempre, sempre avrebbe avuto nelle nari, a dargliene l’orrore, quel profumo della madre.
Ora, nel silenzio, gli arrivavano i secchi tonfi sul mattonato dei piedi della seggiola, prima i due davanti, poi i due di dietro, dondolata dalla balia che addormentava i piccino; e di là dalla siepe il frusciare dell’acqua che usciva a ventaglio dalla tromba lunga come un serpente con cui l’ortolano annaffiava l’orto. Quel fruscio d’acqua gli piaceva, gli rinfrescava lo spirito; e non voleva che, per distrazione dell’ortolano, in qualche punto ne cadesse troppa; lo avvertiva subito dal rumore della terra che si faceva creta e n’era come affogata. Perché gli veniva a mente adesso quella tovaglietta da tè, damascata, con l’orlo cilestrino e i peneri fitti fitti, che la mamma stendeva su un tavolinetto per offrire il tè a qualche amica, capitando insolitamente a casa verso le cinque? Quella tovaglietta… il corredino di Ninnì… l’eleganza, il gusto, quello scrupolo di pulizia della mamma; e ora, ecco stesa là sulla tavola una sudicia tovaglia; la cena non ancora preparata; il suo letto, di là, non ancora rifatto dalla mattina, e fosse stato almeno ben curato il bimbo; ma nossignori: sporca la vestina, sporco il bavaglino; e a muoverne a quella balia il minimo rimprovero, già la certezza d’indispettirla e il pericolo ch’ella approfittasse dell’assenza di lui per sfogare il dispetto contro la creaturina innocente; e poi subito pronta la doppia scusa che, dovendo badare al bambino, non aveva tempo né di rassettare la casa né di attendere alla cucina; e che, se mancava al bambino qualche cura, questo dipendeva perché le toccava far anche da serva e da cuoca. Brutta zoticona, venuta su dalla campagna che pareva un tronco d albero, e che ora credeva di farsi bella, pettinandosi coi capelli alti e infronzolandosi. Ma pazienza! Il latte, lo aveva buono; e il bimbo, quantunque trascurato, prosperava. Ah, come somigliava alla mamma! Gli stessi occhi e quel nasino, quella boccuccia… La balia gli voleva far credere