La gran rivale. Luigi Gualdo

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La gran rivale - Luigi Gualdo

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vedendola, di un sorriso di beatitudine; baciò piangendo quel volto forse impallidito per colpa sua, e si assise al suo posto, a’ piedi del letto, con l’intenzione di non lasciarlo più finchè la sua presenza fosse necessaria. La malattia era gravissima, ma si sperava ancora.

      Alberto fu triste per la partenza di Emilia, come non avrebbe creduto di esserlo. Egli che si era messo con tanta lena al nuovo lavoro che i consigli dell’amico gli avevano fatto intraprendere, ora tornava di nuovo a trovar tutto vano ed inutile, dacchè la sua stanza di studio non poteva più essere illuminata di tanto in tanto dal sorriso di Emilia. Egli che da qualche tempo la trascurava un poco, ora si sentiva talmente pieno d’amore per lei, che non si ricordava un’ora cotanto triste quanto quella in cui aveva udito il fischio della locomitiva che la rapiva. La sala, il posto ch’ella occupava vicino alla finestra, il ricamo mezzo finito sul telaio, il tagliacarte lasciato nel libro, le sbarre del focolare dove i suoi piedini si appoggiavano, i fiori che ora appassivano nei vasi, tutti cotesti segni della sua assenza lo riempivano di malinconia. Il profumo di lei ch’empiva tutta la casa e che gli era sempre stato dolce, ora lo rattristava. Ed era contento della decisione presa di partire, poichè dovendo separarsi da lei, non poteva sopportare di essere continuamente circondato da mille cose che la rammentavano; si sentiva il bisogno di variare tutto intorno a sè, di una vita affatto nuova in mezzo ad oggetti non soliti. Giunto a Parigi infatti queste impressioni si affievolirono; le lettere che riceveva quasi quotidianamente da Emilia gli parevano quasi lei e quasi gli bastavano; le distrazioni, il contatto di quella società letteraria così divertente in cui venne subito introdotto dall’amico, gli aprivano la mente a nuove idee, si vedeva dinanzi gli orizzonti dorati della soddisfazione e del successo. Le speranze che da qualche tempo gli apparivano vaghe e lontane ora si avvicinavano e si facevano reali. Il suo spirito di osservazione, il suo ingegno penetrante che certa ne dovevano fare uno squisito narratore, gli consigliarono un’idea, e allora la febbre del lavoro lo prese. Non escì più che raramente e dimenticò tutto nell’opera che lentissimamente prendeva una forma.

      EMILIA AD ALBERTO

      «Mia madre sta un poco meglio, comincia a mangiare e fra qualche giorno potrà forse alzarsi un tantino, ben inteso che questo miglioramento pur troppo non diminuisce per nulla la gravità del male; i medici al solito non vi capiscono molto. Di aspetto non è male, chè si è molto rialzata di morale dopo il mio arrivo; la povera donna si era ostinata a non volermi vedere, ma faceva uno sforzo; ora non può fare a meno della mia compagnia ed io non la posso abbandonare; se sapessi quanto la sua accoglienza mi ha commossa, bisognerebbe perciò capire tutto il bene che mi ha fatto il suo perdono. Mio padre è giunto da Napoli; davanti al pericolo tutti i rancori cessano e le affezioni rifioriscono; egli col suo solito modo strano mi ha ricevuto non calorosamente, ma come niente fosse; zia Paolina e Giulia sono pure qui; capisco che la mia presenza non li soddisfa molto, ma faccio finta di non accorgermene e cerco tutti i modi per strappare loro un poco di simpatia. – Vedendo la mamma relativamente così bene, non mi so persuadere che non vi abbia ad essere rimedio e non so tralasciare di abbandonarmi qualche volta alla speranza; ma la è una ben piccola speranza, poichè i progressi del male sono lenti ma sicuri. Non puoi imaginarti la terribile sensazione di freddo che mi passa per le ossa all’idea di perderla presto. Dio volesse conservarla; ora che la malattia ha servito a riunirci, potrei vederla ancora di tanto in tanto.... comprendi dunque che ho motivo di essere triste senza contare la tua lontananza. Quella poi mi affligge e un poco mi spaventa. Oh! se tu potessi esser qui con me!.... In ogni modo la nostra separazione sarà lunga certo; è necessario dirti quanto ne dovrò soffrire, a te che conosci il mio amore? – E poi ti sei ancora allontanato maggiormente; sei a Parigi.... Mi amerai lo stesso? Come rideresti forse se ti avessi a dire tutte le mie paure e i pensieri tristi e pazzi insieme che molte volte mi assalgono e che non so respingere. Se avessi il coraggio di scriverteli qui ad uno ad uno, mi parrebbe già vedere il sorriso che spunterebbe sulle tue labbra, quel sorriso che tu solo possiedi e che mi ha rassicurata tante volte, e tante volte mi ha fatto tremare. È per me un supplizio il non poter parlare di te; ma nessuno ti nominò e sembra che per un tacito accordo tutti fingano d’ignorare quasi la tua esistenza; nessuno m’interrogò sul passato che hanno voluto obliare, e per ciò, silenzio! Alberto è una parola esiliata dalla casa e forse è meglio, ma ne soffro ancora più. Mi sfogo scrivendo dei volumi in folio a Maria, la cui amicizia è la mia seconda gioia quaggiù; a lei dico tutto, sì signore, forse più di quello che dico a te, perchè ella non sorride; ma tu non ne sei geloso, non è vero? Già, te lo dico in confidenza, è anzi una delle cose che qualche volta mi spaventa che tu non sei geloso, e non lo sei affatto, ma proprio niente.... A lei dico tutto come vien viene; ed ella m’intende e ha la pazienza di rispondere e di rassicurarmi e spinge l’adulazione fino a farmi incessantemente i tuoi elogi. Ben inteso che non scrivo a lei che dopo d’aver scritto a te, e a te voglio scrivere il più che sia possibile, anche tutti i giorni se ne ho tempo; non ti annoiano tutte le mie chiacchiere, non è vero? – Sai che qualche volta ho un po’ vergogna a mettermi a scrivere? Chi sa come sono queste mie povere lettere che non ho nemmeno tempo di rileggere. Ma già con te non so fare altrimenti, lascio che la penna vada come vuole, basta che ti abbia detto almeno cento volte che ti adoro con tutta l’anima e che ti supplico di pensare a me il più che puoi.... quando hai tempo.

      «Scrivi? – Già tu lavorerai con furore e frenesia e tanto che ti farà male. Bada a quello che fai, non stancarti troppo, abbiti cura, te lo chiedo per me. Non puoi imaginarti con quanta beatitudine penso che finalmente il tuo ingegno ha trovato la sua vera strada, che per te sono finiti i giorni dello scoraggiamento, che il successo nella nuova via ti compenserà fra poco del disinganno nell’altra, che la tua fronte si è rialzata e il raggio della speranza ritorna ad illuminare il tuo sguardo; il pensare che quando ci rivedremo non avrai più quelle lunghe ore di tristezza e di abbattimento provenienti dall’ozio al quale ti eri tu stesso condannato, e che il tuo genio non oserai più negarlo quando tutti l’avranno proclamato! Non posso fare a meno che sentire riconoscenza per chi ti ha mostrata la via che ti stava dinanzi e che tu non vedevi; per quello cui dovremo la tua gloria futura. Dovremo, quanto è dolce una tal parola! Io ti amo con tutte le forze dell’anima e ti amo con tutto l’orgoglio che deve avere la donna che tu hai prescelto. – Come vorrei esserti vicina ora che il sorriso della sicurezza è spuntato nuovamente sul tuo labbro, ora che tu non ti rinneghi più. Tu certo non sentirai troppo la separazione che mi riesce tanto penosa; perchè le nuove idee ti occuperanno, perchè sarai tutto assorto nel lavoro e troppo consolato dalla speranza. E mentre tu vivrai nella capitale del mondo, distratto dallo studio e dai divertimenti, io starò qui sola, al letto di mia madre, pensando a te, invocando la sua guarigione e il tuo ritorno. Oh abbi pietà di me, non dimenticarmi, amami e cerca di dirmelo il più presto che puoi!

      «Non voglio più annoiarti, nè stancarti; mi sono promessa di non parlarti più della mia gelosia, nè delle mie paure; ti dirò ora solamente che, se non avessi il dovere che mi trattiene qui e se il mio tempo non fosse tutto occupato dall’assistenza che ho la consolazione di poter prestare a mia madre, questi che passano per me non sarebbero giorni, sarebbero un tempo senza limite, senza scopo, senza vita. Lo sai che la mia esistenza è dove tu sei.»

      Quanto piacere e quanta tristezza insieme si trova nel conforto che le lettere portano all’assenza! Esse ne diminuiscono l’effetto e rallentano la inevitabile azione del tempo, ma non la impediscono nè l’arrestano. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto fa il suo lavoro, ogni spazio di tempo che passa aumenta la distanza. Alberto che sulle prime si sentiva isolato, triste, affranto, a poco a poco si abituò all’assenza, come abbiamo visto, e passava la vita tra il lavoro e le lettere che riceveva da Emilia, di cui abbiamo voluto dare un saggio. Sul principio egli le aspettava ansiosamente, con impazienza delirante; se tardavano s’inquietava, se mancavano non poteva più mettersi al lavoro, ma poi cominciò a riceverle come una cosa di abitudine e, internato nel suo lavoro che occupava ogni sua facoltà, molte volte non si accorgeva più del ritardo o della mancanza d’una lettera. Dobbiamo confessare tutto? Dapprima gli parevano dolci, ineffabilmente buone, adorabili, inimitabili, poi non poteva negare a sè medesimo che un poco si ripetevano, ch’erano motivi sulla stessa nota, e talvolta inquiete e paurose senza ragione, e interrogative senza scopo. Qualche volta il dover interrompere il suo lavoro per rispondere

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