La gran rivale. Luigi Gualdo

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La gran rivale - Luigi Gualdo

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Pure, malgrado tutto ciò, era forse esagerazione di scetticismo il dubitare che quell’amore potesse solo bastargli nella vita o anche che potesse durare fresco e roseo come il primo giorno? Il suo carattere era troppo vivace e vario, perchè l’amore solo gli potesse riempire l’esistenza. L’amore per alcuni è tutto; per altri, per coloro specialmente che in qualunque modo si meritano il nome di artisti, non è che il possente ausiliare della vita: nei primi tutte le occupazioni servono l’amore, nei secondi l’amore coopera fortemente, è la molla che fa agire il resto, ma invece di farsi servire, serve; serve d’ispirazione e d’incitamento, è a un tempo sprone e conforto, stanca ma riposa anche. Molte volte fu detto che gli uomini superiori, gli artisti, i pensatori, amano più e meglio degli altri, e che tutta la loro vita rimane rischiarata dall’incendio prodotto da quella scintilla della loro gioventù. Ciò è vero; ma non totalmente e non sempre, e sebbene gli artisti trovino certo nell’amore qualche cosa di più di ciò che tutti vi trovano, sebbene amino meglio e con maggiore raffinatezza, pure l’amore non è lo scopo esclusivo della loro vita, e appunto perchè mettono e trovano l’amore in tutto, l’amore non può essere tutto per loro. Nella consolazione divina che l’arte ci presta vi è inevitabilmente una parte di oblìo. Ciò che vi è nella mente può fare obliare ciò che fa battere il cuore. L’arte è passione come l’amore, è la gran rivale, e la sua signoria è dolce quanto quella dell’amore, ma più severa, poichè mette un po’ al disotto di lei tutto che non è lei. Quando l’idea è sorta e con essa la brama irresistibile di estrinsecarla, quando l’artista si è sentito vicino a creare, vicino a quel sublime e terribile momento, tutta l’anima sua, tutte le sue forze sono rivolte verso il suo lavoro; si sente invaso dal fuoco sacro, innalzato al disopra delle altre cose tutte; si raccoglie, si rinchiude per lunghe ore, e tutte le sue facoltà morali, intellettuali, fisiche, tendono ad uno scopo solo: tutto allora scompare intorno, nulla esiste più per lui; nulla lo può distrarre, egli si dedica tutto al dolce e faticoso colloquio tra il suo spirito e la sua idea, dal quale deve nascere l’opera. L’amore e l’arte creano ambedue, ed è forse per ciò che uno dei due sovente è assorbito dall’altro. Ed è difficile che chi si sente animato e pieno della forza creatrice, ricolmo di fantasie che ha bisogno di espandere, possa dedicarsi interamente all’amore. Tutte le forze che prima si consumavano nella passione si rivolgono all’arte, e le voluttà che empivano la vita sembrano ora quasi insipide in confronto alle austere e ineffabili voluttà del lavoro che crea. E da tutte le forze negate all’amore e rivolte all’arte esce il capolavoro. Nell’arte vi è una parte di oblìo, poichè vi è l’estasi, vi è la negazione di ogni altra gioia, poichè è la gioia senza pari. Inoltre essa utilizza tutto, sottopone tutto a sè, si fa da tutto servire. Le gioie e i dolori passati servono al lavoro che s’intraprende, le lagrime hanno un’utilità, il dolore viene egoisticamente adoperato come elemento. Per creare bisogna aver sentito e sofferto, ma bisogna esser calmi. Tutte le tristezze si fondono in quella immensa gioia, dal dolore trascorso può uscire il gaudio segreto e qualche volta il trionfo.

      Nei primi tempi che vivevano insieme, com’era naturale dopo le vicende per cui erano passati, l’amore riempì tutta la vita di Alberto. Egli non pensò più a null’altro, non gli parve possibile quaggiù un’altra felicità. Che gli importava dei suoi sogni d’arte svaniti, o della lunghezza della via da percorrere, o dei pregiudizi invincibili che si sarebbero rivoltati in folla contra di lui? Aveva tutto dimenticato. Era cullato dal dolce canto della gioventù e si addormentava in una beatitudine serena e piena di oblìo. Il suo cuore giovane viveva in tutta la pienezza della vita, ma l’anima sua d’artista si assopiva. L’amore ha generato molte opere d’arte, ma la sua influenza vivificante non si sente che quando il cuore è libero; per ispirare bisogna che abbia finito di regnare. E regnava despoticamente e dolcemente nel cuore d’Alberto, che aveva dimenticato tutto il resto e a Raffaello non invidiava più che la Fornarina. Nella lotta della loro rivalità, l’arte alla lunga finisce quasi sempre col vincere l’amore nei veri artisti; malgrado ciò, bisogna ammettere in un certo senso che la loro potenza è pressochè uguale, poichè finchè l’amore esiste l’arte non ha potenza; alcuna è d’uopo che passi, finisca da sè, e se allora l’arte subentra stabilisce la sua superiorità assorbendo tutto e non lasciando più che nessun’altra passione diventi padrona del campo. Alberto dimenticava dunque tutto il resto e preferiva carezzare i lunghi capelli di Emilia anzi che oscurare la fama di Michelangelo.

      Ma tutto passa quaggiù, e più ancora tutto diminuisce. A poco a poco la felicità si fece, come doveva, più calma e allora la passione non bastò a colmare da sè il vuoto delle ore. Le antiche idee lentamente ritornarono, la vecchia brama ricominciò a mordergli il cuore e sentì di nuovo l’amarezza del disinganno ch’era stato dimenticato. Lentamente l’anima sua si rivolse verso un altro ideale, l’ideale di prima, l’amore sembrò ancora dolcissimo, ma non bastevole, e un irresistibile bisogno di azione lo invase tutto. A questo dovevansi attribuire le lunghe ore di distrazione e di pensiero che turbavano la tranquillità di Emilia e le mettevano nel cuore il terribile presentimento che la funestava. Egli passava delle giornate rinchiuso leggendo e studiando, e coltivandosi così lo spirito ed obbligandolo ad un’attenzione seguita per un argomento speciale lo distraeva dai pensieri scoraggianti e mesti che lo invadevano. E talvolta delle vaghe speranze lo agitavano, che sebbene tenui, erano sufficienti a commovergli ogni fibra del cuore, a farlo tutto piegare con brama intensa verso l’avvenire – poi ricadevano ed egli si trovava avvolto più che mai in una tenebra fitta che adesso lo sguardo di amore di Emilia non riusciva più ad illuminare. Egli non poteva più sopportare quella vita vuota. La sua immaginazione aveva bisogno di correre, le sue mani di afferrare un pennello, uno scalpello, una penna, qualche cosa con cui tradurre i mille pensieri, con cui rendere reali i sogni di cui sentivasi la mente traboccante. La sua fantasia batteva le ali, bramosa di ergersi al volo, il suo corpo voleva sentire la dolce stanchezza di aver molto lavorato, non poteva più vivere senza provare una volta la più grande soddisfazione della vita: quella di vedersi dinanzi l’opera delle proprie mani, il parto del proprio cervello, la traduzione dei palpiti del proprio cuore. L’ebrezza del primo momento d’amore era passata, ed ora sentiva il bisogno di raccontarla sulla tela o sulla carta o nel marmo. Si ricordava che tutti gli artisti hanno amato, ma si sono resi immortali per il loro amore, hanno utilizzato la passione servendosi di quella luce che aveva brillato nella loro vita per farne un’aureola intorno al nome inciso sulla loro tomba. L’artista mette sempre nelle sue opere (anche dove non appare) qualcosa della propria vita, ed egli abbisognava ora di far sosta per ripensare al passato, rigioirlo per così dire traducendolo col mezzo dell’arte e farne qualcosa su cui fondare il proprio avvenire. Ma egli rimaneva intanto in una inazione irrequieta e triste che tentava invano d’ingannare costringendosi a studi seri nei quali non riusciva che mediocremente ad interessarsi.

      Fu allora che rivide quell’amico di cui l’incontro è stato raccontato da Emilia nella sua lettera alla contessa. Si erano lasciati giovanissimi ed ora si trovarono con quella gioia che si ha di rivedere qualcuno con cui si sono vissuti i primi anni pieni di sole, e di potersi raccontare a vicenda i fiori e gli sterpi della via percorsa. E, cosa strana, quando poterono capire quali erano state dal tempo della loro separazione le loro vite reciproche, ciascuno invidiò l’altro. L’amico dei primi anni d’Alberto era stato più fortunato di lui, poichè, malgrado fosse circondato da maggiori difficoltà materiali e crudelmente attaccato dalla povertà, pure riuscì. Fin da fanciullo egli era poeta, ed essendosi coraggiosamente avviato a scrivere, si era reso colpevole in breve tempo di due volumi di prosa e persino di uno piccino di versi che avevano subito messo il suo nome ad un posto d’onde non poteva più scendere, ed altresì assicurato una mediocritas, più o meno aurea, ma insomma sufficiente a impedire ch’egli avesse a morire realisticamente di fame. Suo padre, che travolto nelle sfortune politiche aveva dovuto emigrare, aveva scelto Parigi per dimora, ed egli aveva avuto perciò una educazione italiana in famiglia, ma si era resa al tempo stesso tanto propria la lingua, e con essa lo spirito francese, che si trovò naturalmente per questa doppia educazione molto avanzato in letteratura, potendo abbracciare l’antica e la moderna, la classica e la nuova. La Francia è ora incontestabilmente ciò che fu la Grecia ed è stata l’Italia. Tutto il movimento è là, l’impulso parte da lei, cammina luminosamente all’avanguardia nella luce dell’avvenire. Ecco perchè l’amico di Alberto, il cui primo romanzo, scritto in italiano, venne letto da diciassette

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