La riconquista di Monpracem. Emilio Salgari

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La riconquista di Monpracem - Emilio Salgari

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tutta vestita di bianco e con ricchi pizzi sedeva al pianoforte, e guardava da vera inglese, più con curiosità che con apprensione, la scena che stava per succedere.

      Il tenore invece era prudentemente scomparso per paura che la sua voce guastasse i nervi del terribile uomo, che comandava da vero padrone su una nave non sua.

      – Miss, – disse alla suonatrice, inchinandosi galantemente e togliendosi il cappello – poco fa, navigando al largo, io ho udito suonare un waltzer che da molti anni non ho più danzato.

      Vorreste essere così gentile di ripeterlo?

      – Suonavo il Sangue Viennese, signor…

      – Chiamatemi pure milord, o meglio Altezza, essendo io un rajah indiano che ha già dato non poco da fare ai vostri compatriotti.

      – Ebbene, Altezza? – balbettò la miss.

      – Replicatemi quel waltzer, ve ne prego. L’ho danzato una sera a Batavia e me lo ricordo ancora.

      Quello Strauss, bisogna dirlo, è insuperabile nello scrivere i waltzer.

      Ma vi era qualcuno poco fa che cantava in questa sala. Dove si è cacciato quel signore? Non sono già un’orca marina per divorarlo in un solo boccone e me ne appello a voi, signore e signorine.-

      Un giovinotto roseo e paffuto coi capelli biondi e gli occhi azzurri fu spinto innanzi da una energica signora olandese od inglese che fosse, la quale gli disse:

      – Canta dunque Wilhelm! Sua Altezza desidera udirti.

      – Più tardi signora, – rispose il portoghese. – L’alba non è ancora spuntata. —

      Il capitano, che si mordeva rabbiosamente i baffi malgrado il magnifico regalo che aveva ricevuto e che non doveva valere meno di mille rupie, si fece minacciosamente innanzi a Yanez, chiedendogli:

      – Voi avete detto che l’alba non è ancora spuntata?

      – Chiamatemi Altezza prima di tutto. Io vi ho chiamato finora capitano.

      – Sia pure, Altezza; ma vi chiedo se voi avreste l’idea d’immobilizzare il mio piroscafo fino a domani mattina. Siamo attesi a Brunei.

      – Da chi? – chiese Yanez ironicamente. – Da quel famoso sultano? È troppo occupato a digerir lo champagne che si fa mandare dalla Francia e che beve come acqua fresca.

      Ora lasciateci tranquilli e non guastate più oltre la festa colle vostre proteste, che d’altronde non otterranno alcun effetto. —

      Poi, volgendosi verso i trenta malesi, immobili e silenziosi come statue di bronzo, sempre appoggiati sui loro sciaboloni, aggiunse:

      – Là c’è la forza! —

      Girò intorno uno sguardo e lo fissò su una bellissima signora dalle forme opulenti, che si pavoneggiava in un azzurro vestito di percallo adorno di trine di Bruxelles.

      – Signora, – le disse togliendosi il sombrero e facendo un profondo inchino. – Vorreste farmi l’onore di concedermi un waltzer? Non sono più giovane, eppure sono sicuro di ballarlo meglio di tutti quelli che si trovano qui.

      – Volentieri, Altezza, – rispose prontamente la signora.

      – Miss, volete cominciare?

      Approfittiamo dell’immobilità del piroscafo.

      – Subito, Altezza, – rispose la giovane pianista.

      Fece scorrere le sue agili dita sui tasti, poi attaccò vigorosamente il magnifico waltzer di Strauss, facendo echeggiare tutta l’ampia sala.

      Yanez, sempre cortese, quantunque un po’ beffardo, porse la mano alla sua dama, dicendole:

      – Approfittiamone.

      – Di che cosa, Altezza? – chiese la signora con visibile emozione.

      – Questa è la tregua di Dio, e io perciò sarò con voi tutti un perfetto gentiluomo.

      Non chiedo altro che di divertirmi e di farmi obbedire. Signora, sono ai vostri ordini. —

      Lo strano nababbo indiano abbracciò la dama e mentre la giovane miss suonava vigorosamente, si slanciò traverso il salone, danzando con grazia sufficiente, data la sua età.

      Tutti gli altri, impressionati dalla presenza dei malesi, erano rimasti immobili. Nessuno aveva osato seguire quel terribile uomo, quantunque, pur danzando, avesse gridato replicatamente:

      – Divertitevi dunque, signore! Che cosa aspettate? —

      Il pianoforte, un ottimo Roeseler, vibrava superbamente nella magnifica sala.

      Yanez continuava a danzare, ma i suoi occhi irrequieti si fissavano di quando in quando sui passeggeri, come se cercasse qualcuno.

      Ad un tratto, fra l’ansietà generale, s’interruppe.

      Un uomo, che indossava una casacca rossa ad alamari d’oro, calzoni di tela candidissima entro alti stivali alla scudiera, con due lunghi favoriti biondi che gli scendevano lungo le gote, si era aperto il passo attraverso i passeggeri.

      Yanez si curvò verso la dama e le disse:

      – Permettete, signora? Riprenderemo la danza un po’ più tardi. —

      Mosse diritto verso l’uomo che indossava la divisa rossa, così cara agl’inglesi, con un moto fulmineo trasse ed armò le pistole e gliele puntò contro il petto.

      Un grido di spavento echeggiò nella gran sala, subito soffocato dal rumore sordo e minaccioso dei parangs malesi che venivano piantati nel tavolato.

      – Signor mio, – gli disse – volete farmi l’onore di dirmi chi siete?

      – Un uomo protetto dovunque dal largo vessillo inglese rispose l’altro, pur impallidendo poiché era affatto inerme.

      – L’Inghilterra penserà più tardi, se crederà, a prendersi la sua rivincita e vendicare una offesa fatta ad uno dei suoi ambasciatori.

      Per il momento il padrone sono io qui.

      – Con quale diritto? – chiese l’inglese.

      – Del più forte.

      – Questa non è una ragione, bandito!

      – Vi prego di chiamarmi Altezza, perché la grande Inghilterra ha riconosciuto perfettamente i diritti che io ho su una grande provincia prossima al Bengala.

      – E che cosa pretendereste da me?

      – Vi siete dimenticato, milord, di chiamarmi Altezza.

      – Ai banditi dell’Arcipelago malese non accordo un tanto onore.

      – Ed io milord, me ne infischio altamente. Chi siete? Parlate o fra pochi secondi qui vi sarà un uomo morto.

      – Tanto v’interessa? – chiese l’inglese, pallido d’ira, arretrando d’un passo.

      – Certo, milord.

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