La rivicità di Yanez. Emilio Salgari

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La rivicità di Yanez - Emilio Salgari

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correndo all’impazzata ed urlando spaventosamente. Assalivano a destra ed a sinistra procedendo animosamente e non cessando di sparare, ma quasi sempre a casaccio.

      La colonna infernale peraltro non si arrestava. Procedeva rapida, sempre mitragliando, mentre i cavalieri eseguivano, di quando in quando, delle cariche furiose coi pesanti kampilangs in pugno, producendo sugli sciacalli di Sindhia delle ferite spaventose e forse inguaribili.

      Dinanzi a quegli attacchi furibondi gli assalitori continuavano a scompigliarsi ed a fuggire attraverso alle risaie, ma non tardavano a raggrupparsi intorno ai rajaputi, i soli che osassero resistere, ed a far uso delle loro carabine.

      Dalla parte dei malesi, di quando in quando cadeva qualche uomo che non veniva abbandonato dai compagni sul campo di battaglia, colla speranza di poterlo ancora salvare.

      Ma le cinque mitragliatrici, maneggiate da uomini abili, compivano delle vere stragi, ed erano soprattutto i rajaputi che pagavano, perché Sandokan non faceva fuoco che su di loro, ben sapendo che erano le uniche truppe solide che aveva l’ex rajah.

      Quegli arditi mercenari dall’aspetto brigantesco, cadevano a gruppi sugli argini, dentro i canali delle risaie; eppure tentavano di raccogliere, con altissime grida, intorno a loro, i paria, i fakiri, i bramini, tutta gente non abituata certamente alla guerra.

      – Tengono duro, ma noi la spunteremo – disse Sandokan a Kammamuri, maneggiando la mitragliatrice. – Se non vi fossero i rajaputi, la giornata sarebbe già vinta; però Sindhia s’inganna se crede di arrestarci prima che noi giungiamo nella città sotterranea.

      Le scariche si succedevano alle scariche con frequenza spaventosa, ed i proiettili sibilavano dentro le risaie. I cavalieri cosí malesi come dayaki, erano tornati a stringersi intorno agli elefanti e si servivano delle loro grosse carabine, lasciando in pace i kampilangs, già arrossati di sangue.

      La vecchia moschea non era che a tre chilometri. Le sue cupole si disegnavano nettamente sul fondo del cielo diventato d’un azzurro cupo poiché il sole era ormai già tramontato.

      Erano molti, tuttavia Sandokan non disperava affatto di giungervi malgrado i continui e feroci assalti degli sciacalli di Sindhia.

      Aveva portato con sé molte casse di munizioni destinate soprattutto alle mitragliatrici, e non faceva economia di proiettili né faceva farne agli altri.

      – Giú!… Spazzatemi questa canaglia!… – gridava. – Noi che abbiamo vinti gli inglesi in dieci battaglie, dovremo cadere dinanzi a dei miserabili paria?

      Vedendo che gli assalitori, malgrado le terribili perdite subite, tornavano a radunarsi intorno ai pochi rajaputi sfuggiti al fuoco infernale delle mitragliatrici, si volse verso i suoi cavalieri.

      – Addosso coi kampilangs in pugno!… – gridò. – Sbarazzatemi la via ora che il terreno è piú propizio.

      Gli elefanti intanto avevano lasciate le risale e marciavano, a gran corsa, su una landa vastissima interrotta solamente da gruppi di banani e di radi cespugli.

      I malesi ed i dayaki attesero che le mitragliatrici avessero sgominato l’ostinato avversario, poi caricarono all’impazzata, maneggiando con mano robusta i loro pesanti sciaboloni.

      La colonna infernale passava attraverso i corpi degli sciacalli di Sindhia, tutto rovesciando al suo passaggio.

      Ormai piú nessuno poteva arrestarla. Sarebbero state necessarie tutte le forze dell’ex rajah, forze che si trovavano forse disperse intorno alla vasta città distrutta ed occupate a rimescolare le ceneri delle pagode, delle moschee, dei palazzi, dei bengalow, colla speranza di trovare dell’oro e dell’argento.

      Gli elefanti impressionati da tutti quegli spari e da tutte quelle grida, e resi furibondi per qualche ferita, si erano slanciati a gran corsa barrendo spaventosamente.

      Quei cinque giganti, montati da uomini che parevano invulnerabili, e che colle mitragliatrici seminavano dovunque la morte, facevano paura.

      Gli sciacalli di Sindhia, già sgominati dall’ultima carica, atterriti da tutti quegli spari che si succedevano senza tregua, e che abbattevano sempre gruppi d’uomini, non osavano piú opporre alcuna resistenza, anche perché il terreno scoperto non si prestava piú.

      Fuggivano da tutte le parti, piú lesti dei nilgò, gettando perfino le carabine per essere piú leggeri. Anche i pochi rajaputi, spaventati dalla carneficina compiuta dalle mitragliatrici, non resistevano piú. Fuggivano dinanzi alla colonna infernale.

      – Era tempo che se ne andassero – disse Sandokan, scaricando un’ultima volta la sua mitragliatrice sui fuggiaschi. – Ci prendevano per dei conigli?

      Alzò la voce e gridò:

      – Spingete, spingete, cornac!… Siamo ormai a pochi passi dall’asilo sicuro.

      – Lasciate ora a me la direzione degli elefanti – disse Kammamuri. – Io solo conosco il passaggio.

      – Potranno entrare le bestie? – chiese Sandokan.

      – L’arcata è cosí grande da permettere l’entrata anche ad un piccolo esercito, e poi vi sono le due banchine che sono vastissime. Cavalli ed elefanti potranno avanzarsi senza alcun pericolo di cadere nelle acque fangose del fiume nero. Ci vorrebbe peraltro qualche torcia.

      – Ne abbiamo una cassa piena. Sta proprio sotto i tuoi piedi.

      Il maharatto con due colpi del calcio della sua carabina sfondò le tavole, prese ciò che aveva chiesto e l’accese subito, gridando agli altri cornac:

      – Seguite sempre il mio elefante ed io rispondo di tutto. Badate che nessun animale si sbandi quando saremo entrati nella grande città sotterranea!…

      Presso la vecchia moschea una banda composta di paria o di fakiri, o di banditi, tentò un ultimo assalto per arrestare la colonna infernale prima che si sprofondasse sotto le tenebrose volte della grande cloaca, ma non era cosí formidabile da opporre una lunga resistenza.

      Le mitragliatrici tuonarono per l’ultima volta abbattendo file intere di combattenti, poi i cinque elefanti ed i cento cavalieri scomparvero sotto la gigantesca arcata, correndo su una delle due banchine.

      La torcia di Kammamuri serviva da faro.

      Ad un tratto delle voci echeggiarono fra le tenebre:

      – Chi va là!… Chi va là!…

      – Siamo le tigri di Mompracem! – gridò Sandokan con voce tonante. – Non fate fuoco!…

      – Era tempo che tu giungessi!… – gridò una voce.

      – Ah, sei tu, Yanez? – chiese Sandokan. – Sono ben lieto di essere giunto ancora in tempo per salvarti.

      Un gruppo d’uomini si avanzava, agitando due torce. Era preceduto da un uomo bianco, dalla lunga barba brizzolata, di forme gagliarde, vestito interamente di flanella bianca sottilissima. A fianco di quel bell’uomo si avanzava un indiano dal lineamenti fini, la pelle appena abbronzata, gli occhi nerissimi, vestito mezzo da cipai e mezzo da rajaputo.

      Erano Yanez, il Maharajah dell’Assam, ormai troppo noto, ed il suo fedele compagno Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera.

      Dietro venivano tredici uomini, tutti indiani e tutti armati di carabine e di tarwar, armi che non valevano molto in uno scontro contro i malesi

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