Parvenze e sembianze. Albertazzi Adolfo
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Ne era venuta l'idea a parecchi gentiluomini i quali avendo ricercato una sera, come solevano di frequente per passare le ore, “qual fosse la piú espedita via d'acquistare la grazia dell'amata donna„, né essendo riusciuti ad accordarsi sulle varie proposte, avevan risoluto di rimettersene al giudizio delle armi. Detto, fatto; e per l'operosità in ispecie di Gabriele Guidotti, che inventò favola e macchine, curò l'allestimento del teatro e instruí i cavalieri, il 2 marzo a un'ora di notte tutta l'eletta società di Bologna poté convenire all'atteso divertimento.
Tre ordini di gradini e tre ordini di logge accolsero gli spettatori: nei gradi a mezzodí le dame; di fronte a loro il cardinal legato Capponi e i magistrati; a destra e a sinistra i cavalieri. Nella scena dell'azione s'ergeva un tempio dorico circondato d'alberi; nell'alto, al principio, s'aprí una nube e apparve Giove in mezzo agli dei; e a lui Venere, con a lato il figliuolo cui accennava, chiese licenza di scendere in terra per soccorso e consiglio delle misere donne. Giove, manco a dirlo, assentí, e la nuvola si rinchiuse. Ed ecco uscire dal tempio un coro di sacerdoti, i quali si disponevano a sacrificare alla dea un leone un capro e un drago, quando a suono d'una musica sí dolce che – asserisce uno il quale l'udí, non io – “tutti gli spettatori sembrava ardessero del soavissimo fuoco d'Amore„, comparvero Venere e il figlio e l'amico di casa, Marte. Amore liberò le belve dall'imminente sacrificio:
E questo altar or sia – disse —
Il tribunale ove porrò la seggia
Per giudicar de' cori
Quali sian di pene e premi
Meritevoli ardori.
Un Amorino venne a querelarsi al picciolo Iddio di certa giovinetta che aveva abbandonato l'amante suo, ma poiché Venere difese la colpevole e poiché Marte, il quale aveva ragioni sue proprie di contraddizione alla dea, sostenne il cavaliere amante, bisognò trovare la fine del contrasto in particolari certami e in un generale torneo. Veramente ci fu ad intermezzo la comparsa della Gelosia in forma di larva orrenda con uno stuolo di “mostri neri ignudi alati„ e “con uno strepito di anime perdute„ in una voragine di fuoco; ma come la femmina maligna non riuscí a “mettere contagio nell'anima degli spettatori„ – asserisce uno spettatore, non io – posso risparmiarne la descrizione.
E siamo cosí al meglio dello spettacolo. Arrivano due tamburini, ventiquattro paggi con scudi, e sei staffieri con due azze, due picche e due mazze; e dietro loro i cavalieri padrini del mantenitore, Francesco Cospi e Giovan Gabriello Guidotti; poi infine il mantenitore di Venere, Alessandro Bentivoglio, “vestito di morello e d'argento; calza intiera con tagli di cordelle d'argento, foderate di tela d'argento e morella, e strascinandosi dietro lunghissimo manto di seta morella, ricamato di fiori d'argento e di vari colori, tempestato di grosse gemme e perle, con cimiero altissimo di piume in pomposa mostra„. Di contro a lui, in una pianura, sorge uno scoglio con sópravi una donna – la Terra! – , che esorta le donne ad amare e cantare le lodi di Amore e quindi se ne va, mentre giunge una testuggine (qualcosa come il cigno wagneriano) recando con i loro padrini i due cavalieri Florimanno e Ribano – Alessio e Giovanni Orsi – , i quali vengono a sostenere “che la virtú non è compagna d'Amore„. Ma mal per essi, giacché Candauro, ossia il Bentivoglio, li abbatte entrambi. E sparisce la scena e apparisce il mare in cui s'eleva Proteo a dire anche lui non so quali belle parole: indi due altri cavalieri arrivano per farsi vincere dal cavaliere di Venere. Seguono due altri condotti da Iride, dei quali pure avviene l'abbattimento, e poi…
“… udissi un rimbombo… et il cielo incominciò a rosseggiare, e balenando e fiammeggiando in guisa che parea che egli veramente ardesse, e a poco a poco radunandosi tutte quelle fiamme in globi, formarono come nuvola di fiamme in mezzo della quale udivasi la voce di persona, che rassomigliava il Fuoco, e cosí diceva de' suoi cavalieri:
E questi miei di vive fiamme ardenti,
Fiamme, che il loro Amor, che l'altrui sdegno
Si nutre al cor cocenti,
Non troveran da te pace e pietade,
Rigida inesorabile beltade?
Io qui con lor, donne gentili, vegno
Per palesarvi solo,
Nel fiammeggiante lor tacito aspetto,
Qual sia la pena e 'l duolo
De l'infocato petto…
“Dopo le quali parole chiusasi la nuvola, continuamente spargendo raggi e faville di odorate fiamme, venne ad abbassarsi infino all'orizzonte, e quivi scoppiando con molti tuoni e baleni, espose fuori… (oh meraviglia!)… il signor Andrea Barbazzi, cavaliere dell'ordine di San Michele e giovane di animo eguale alla grandezza del suo nascimento et di vero valore, et insieme il signor Ippolito Bargellini, non inferiore di generosità d'animo et di altezza di pensiero a chi si sia, i quali erano vestiti superbamente con calze intiere alla spagnuola, a tagli di cordelle d'oro e d'argento, foderate di tela d'oro ardente, con fiamme rosse, con le facelle di fuoco ardente in mano, cimieri altissimi fabbricati con piume rosse e fiori d'oro, a guisa di lingue di fiamme, che in forma di piramide ascendevano al cielo…„. “Li seguivano due gran Ciclopi ignudi, se non in quanto erano ricoperti vagamente in parte nel petto e nei fianchi da drappi dell'istesso colore del quale erano vestiti i primi; portavano due gran facelle nelle mani accese et pesanti martelli, et avevano un sol grand'occhio in mezzo la fronte; la faccia affumicata e rabbuffati i crini, e barba folta, sicché propriamente parevano Sterope e Bronte che venissero dalla fucina di Volcano e da gli incendii etnei ad accompagnare i cavalieri ardenti„. E tanti altri cavalieri successero che se ne composero squadre e, seguendo il torneo generale, gli eroi, sempre per divergenza d'opinioni intorno il miglior modo d'amare, “incominciarono con li stocchi in tal maniera a ferirsi che fecero impallidire i sembianti ed agghiacciare di gelata paura il cuore a molte di quelle bellissime dame„. Ma a conforto di esse si fé innanzi Amore a comandare tregua e quiete e a dar la sentenza pacificatrice:
Chi cerca, amando e oprando, amore e fama,
Merta il pregio d'Amore e sol ben ama.
V
Può darsi che Bianca Barbazza vivesse parecchi anni rattenuta in onestà dalla trista rimembranza della madre sciagurata, ma alle amiche le quali ne invidiavano la bellezza, ai corteggiatori che non potevano sperare trionfi su lei, a tutta quella società che l'attorniava avida di pettegolezzi e di scandali dové poscia e finalmente recare conforto la voce d'un fatto sicuro: Bianca aveva per amante il marchese Fabio Pepoli e traeva una tresca con lui. Si riferiva il tempo e il luogo de' loro segreti convegni e nelle conversazioni e nei ritrovi si coglievano senza fatica le loro occhiate bramose e i sorrisi e gli accenni; e il Pepoli ardendo di violenta passione non avvertiva di procedere cauto, e la dama o non sapeva frenare l'impeto suo, o cieca anch'essa d'amore gli consentiva senza troppi riguardi. Forse solo il marito poeta non s'adombrava per la solerzia del marchese in servirgli la moglie e si spiegava ogni cosa con la libertà delle “convenienze cavalleresche„; ma i fratelli di lui, cui premeva intatto il “lustro„ della famiglia, osservavano bene e ascoltavano. Però il conte Guido Antonio trovandosi nell'estate del 1621 a certa festa di ballo, alla quale erano pure gli amanti o si discorreva di loro, disse abbastanza alto da essere udito: – Provvederemo! —27
I Barbazza non scherzavano e i loro bravi erano usi “di fare all'archibugiate ogni giorno„, onde Fabio Pepoli, messo in guardia, volle prevenire il compimento della minaccia con audace prontezza, e d'accordo con gli amici Aldrovandi, Vizani e Riari il 6 luglio su l'ora di notte venne in piazza san Domenico verso casa Barbazza: il luogo era deserto; solo, un po' lungi dalla porta, Guido Antonio se ne stava al fresco. E su lui precipitarono i giovani cosí all'improvviso che egli non fu in tempo a ritirarsi in casa e dové schermirsi male armato ma con cuor di leone: i colpi piovevano e uno lo feriva al capo; egli indietreggiava urlando, e indietreggiando stramazzò
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Ghiselli, T. XXIII, pag. 462-579. A stampa:
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Ghiselli, T. XXIV, pag. 567-573. Posidonio e Fr. Maria Tagliaferri,