In faccia al destino. Albertazzi Adolfo
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Читать онлайн книгу In faccia al destino - Albertazzi Adolfo страница 12
Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi… con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la notizia… Moribonda?.. morta?
Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta…
Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che spaventevole commozione proverebbe mai un uomo…; proverei io, se d'improvviso… in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire… io, al cuore… la più vivace di quelle tre creature?.. Che istantaneo strappo;… che strazio… se io lì, presente sua madre… io… in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce… ammazzassi, io… strangolassi… Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo…
Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un coltello… e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia… Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero…
Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:
– Salvatemi! Salvatemi!
Ero salvo.
Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.
Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?
Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.
Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!
Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso… E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirées aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte, con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità, sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)
Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com'egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s'attaccasse come una sanguisuga.
Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o rincasava Claudio.
Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima; d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell'armonia; non in me ma intorno a me. Sentivo…: io sentivo!
Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr…; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.
Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.
– Bravo!
– Dov'è?
– Sparito! S'è consumato nel canto.
Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due…»
Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.
E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.
– Questo? – domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il mazzo.
Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:
– Euphrasia officinalis.
E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.
Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:
– Il babbo!
Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.
– Ben arrivato! Babbo, babbo!
Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.
– Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio?