In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

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In faccia al destino - Albertazzi Adolfo

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al colletto che le stringeva la gola, tentò allargarlo, irosa, alzando gli occhi: bellissimi per il contrasto luminoso delle pupille e dell'iride col bulbo chiaro, che lo sforzo più distingueva.

      – Però – riprese – , gli occhi di Marcella son più belli dei miei. Marcella ha gli occhi della mamma. Non sarebbe meglio fossi bruna io e bionda mia sorella? Tanto, a Guido gli sarebbe piaciuta lo stesso, e io mi piacerei di più a me!

      Io dissi, tornando in argomento:

      – Via!, consolati; chè gli artisti preferiscon le bionde. Ti daremo in moglie a un poeta.

      – No, un poeta no. Non lo voglio!

      – Perchè?

      – Perchè?.. Perchè?.. non lo so nemmen io il perchè. Un pittore, forse… un maestro di musica, celebre…

      – Perchè preferiresti uno di costoro?

      – Ma sa che è un bel tipo anche lei? Vuol sapere il perchè di tutto! Perchè? perchè? perchè?..

      Mi canzonava. Fu così travolto in riso il resto della mia indagine.

      Ortensia rideva di gusto; e se non ne trovava il motivo fuori di sè, lo trovava in sè medesima, quasi per espressione, e sfogo di giovinezza; saltando, magari, e cantando per ridere delle sue mosse e del suo canto; ma non era mai un riso sciocco. E diceva:

      – Lasciatemi ridere, ora che la mamma è guarita!

      Poi mi piantava lì, dov'ero, per correre a veder la madre.

      … Quantunque non protesse star molto in piedi, Eugenia aveva ripreso a dirigere le faccende di casa. Più brevi divennero quindi le nostre conversazioni al rezzo; più lunghi i miei colloqui con Ortensia, la quale adesso ardiva sgridarmi non solo se mi vedesse accigliato e col «sorriso brutto», ma anche se non la ubbidivo e trascuravo certe sue giuste pretese. Per diritto e dovere fraterni mi sgridava se m'impolveravo gli abiti e non attendevo abbastanza alla toilette; e spazzolandomi e riacconciandomi la cravatta, borbottava:

      – Oh che uomo! oh che uomo!

IX

      Ero certo che l'amore non aveva ancor molestato il cuore di Ortensia e che nessun corteggiatore le dava maggior pensiero di Pieruccio Fulgosi.

      La breve dimora a Milano, l'inverno, le aveva consentito la molteplice distrazione d'una grande città, ma le abitudini della famiglia l'avevano sottratta alle occasioni di conversazioni e ridotti, che son propizie agli innamoramenti.

      A Valdigorgo non vedevo chi potesse innamorarla.

      Quando le Moser passavano in paese – e fuor dei giorni festivi era assai di rado – il giovane ufficiale postale e telegrafico esponeva il capo dall'inferriata dell'ufficio; l'assistente del farmacista correva sulla soglia della bottega; i perdigiorni del caffè interrompevan la partita a carte o a bigliardo.

      – Le Moser! le Moser!

      Ma tutti costoro, e gli altri non da meno e non da più di essi, restavano come a una visione celeste e tiravan di gran sospiri: il cielo è solo per gli eletti!

      Dell'ingegner Roveni io non sospettavo affatto, perchè ero sicuro di questo: nelle poche ore che restava alla villa egli non trattava Ortensia diversamente da Marcella, cioè con confidenza disinvolta e, insieme, un po' rude.

      – Un giovane serio! – ripeteva Ortensia. Infatti, nè con lei nè con Marcella scherzava mai come con Anna Melvi; e con la Melvi, la quale lo provocava, scherzava in modo che pareva dire: «Tu cerchi di farmi cascare, ma non ci riuscirai. Sarà brava quella che ci riuscirà!»

      E rideva, con Anna, quasi per togliersi di imbarazzo, quasi per forza; in modo che – ridendo egli poco o punto con tutti gli altri – poteva parere un po' volgare. Anche ciò mi confermava nell'opinione che fosse un uomo lontano e libero da preoccupazioni sentimentali; libero fors'anche per misura, forse per calcolo. Ma non poteva passarmi per la mente l'idea che dissimulasse; nè, pensandoci, ci avrei potuto trovare ragione alcuna.

      Del resto, Ortensia, per parte sua, col suo carattere, mi persuadeva che quando pur avesse avuto cento adoratori attorno, e uno più esperto dell'altro, sarebbe stata ugualmente lontana dal pericolo di languir di passione. Chi pensa a sè stesso, perchè ama o è in attesa di amare, non ha di quelle impressioni improvvise, di quei rapidi entusiasmi per la vita esterna che aveva lei.

      In ciò rassomigliava alla madre quand'era giovane; ma mentre in Eugenia l'ammirazione dei fenomeni naturali era temperata dall'affetto raccolto nel marito e nella famiglia, in Ortensia la stessa ammirazione prorompeva giù spontanea, più vivace, più grande; immediata. Ecco forse perchè all'arte della poesia, che domanda, a comprenderla e a gustarla, studio e riflessione, essa preferiva la pittura e la musica.

      Con Ortensia non si facevan molti passi, non si stava un po' fuor di casa, senza udirla ripetere: – Guardi! che bellezza! Stupendo, è vero? – E mi chiamava spesso a voce alta: – Sivori! venga a vedere! corra!

      Se non che per godere del tutto la libertà delle sue giornate, Ortensia non avrebbe dovuto aver nulla da fare in casa. E, pur troppo, la vecchia cameriera veniva in cerca di lei con gravi incombenze di Marcella o della madre.

      Uf! che pazienza! Di solito scappava in casa di corsa per trarsi d'impaccio al più presto possibile; ma talvolta rispondeva:

      – Sì, sì, ho capito! Subito! Vengo subito! – e allora a rivederci, Marcella; o arrivederci, mamma!

      Quando poi non poteva esimersi dal cucir qualche cosa, o dal rammendare il bucato, si addossava in un giorno il lavoro di una settimana. In quel giorno di clausura, che manteneva con fermezza eroica, io la vedevo di giù, dal giardino, seder presso una finestra, contro al fondo scuro della camera.

      A capo un po' chino, con movimento ritmico, alzava il braccio e tendeva il filo a ogni punto: ne scorgevo ad ogni volta la mano bianca; e come di tratto in tratto elevava il capo a guardar fuori, al cielo, i suoi occhi mi parevano più luminosi e profondi.

      Ma ottenere di cotesti miracoli era impossibile per imposizione.

      Aveva la ribellione nel sangue; al punto che si ribellava anche a Sivori.

      Una mattina ricorsero a me, l'una dopo l'altra, Marcella, la cameriera, Eugenia.

      – Sa dove sia Ortensia? – ; dove sia la signorina? – ; dove sia la cervellina?

      No, neppur Sivori lo sapeva. L'avrebbe saputo Mino; ma Mino appunto era stato prescelto da lei ad accompagnarla nel bosco, di là dall'antico convento, per raccogliervi bulbi di ciclami.

      Senza di me! Quando tornò a casa, la rimproverai con acerbezza; come avesse commessa una colpa grave davvero. Essa però prese i rimproveri allegramente.

      – Perchè non ho chiamato lei, invece di Mino? Perchè?.. per farle, dopo, una improvvisata! Non va bene? Una scusa che non va? Allora perchè…: per evitare una sgridata! Raccoglier cipolle di ciclami nel bosco… Orrore! Ma no: neppur questo «perchè» la soddisfa? Ecco dunque la verità: m'è parso un passatempo non da uomo così… burbero!

      Quindi a me non rimase da far di meglio che star a vederla a piantar i bulbi nell'aiuola, solo sgridandola che s'interrava le mani, e lodando Mino, il quale, più savio, scavava con un paletto.

      – Che m'importa delle mani? – ella disse. – Vedrà, vedrà che ciclamini! Io li preferisco

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