In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

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In faccia al destino - Albertazzi Adolfo

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insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.

      Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?

      Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!

      Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.

      – Signor dottore: vuole? – mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.

      Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:

      – Voglio veder io! voglio vedere!

      Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida.

      Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.

      – Oh l'infelicità del primo amore! – dissi con l'ingegnere. – Che fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.

      Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:

      – Brutto giorno, oggi! – e via!

      A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.

      Disse Roveni: – Che bella voce ha Anna! – E forte: – Canti, signorina Melvi!

      Allora la monellaccia, con voce squillante:

      L'amore è una catena!

      L'amore è una catena

      che non si spezza…

      … Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi – e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine – le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.

      Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!

      Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il taglio avido dei denti?

      E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.

      Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.

      Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!

      Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe.

      … Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.

      Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.

      Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla fiammella.

      Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.

      Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.

      D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l'Angelus vibrò nell'aria.

      Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e fresca… Infelici i poveri!

      Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?

      – Qual è la villa De Mol? – chiesi. Me l'accennarono.

      – Perchè? – mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.

      Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta… Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!

      Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e ragazze vestite di bianco l'accompagnava; e gli alberi del viale, per cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del corteo. O la felicità era d'intorno a me?

      Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano?

      Ascoltai… Anna e Ortensia, alla fabbrica Moser, erano entrate

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