In faccia al destino. Albertazzi Adolfo
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Читать онлайн книгу In faccia al destino - Albertazzi Adolfo страница 18
– Vedremo.
– … Però le dà ragione. Lei può pretendere migliore impiego.
– Davvero? Moser non me ne vorrà male, se mi converrà lasciarlo?
Era grato anche a me, che l'accertavo di no.
Io pensavo intanto: «Ecco un uomo! Abbastanza di sentimento; ma finchè non gliene venga danno». Pensai pure: «Se Ortensia avesse qualche anno di più…» Ma guardando il giovane respinsi subito quel pensiero. «Una moglie a costui sarebbe d'impaccio. Per andar lontano, vuol essere libero. Costui è un uomo!»
Egli proseguiva:
– Certo, Moser non potrà dire che gli do il calcio dell'asino. Avrei potuto andarmene già l'anno scorso. È vero che… Basta! La vita è lotta. Io, dottore, ho lottato sempre dai quindici anni in poi.
Era rimasto orfano giovanetto; a prezzo di stenti e di fatiche aveva compiuti gli studi… Poi ripetè che a Moser egli era tanto affezionato…
Avrei dovuto supporre qualche cosa di dubbio e di segreto nelle sue parole, e in quella reticenza: «È vero che…», per cui si era trattenuto da una confidenza inopportuna?
Non so. Anche ora rivedendo Roveni nella mia memoria qual egli era quel giorno mentre mi camminava accanto – più alto e più robusto di me; energico in tutta la persona che indossava il solito vestito bigio, col cappellone a larga tesa; i grossi baffi arditamente eretti, lo sguardo sicuro come il passo – anche ora mi sembra naturale che allora io soggiacessi alla simpatia di quell'uomo. Notai, sì, ch'egli mi guardava di rado e che tendeva gli occhi innanzi a sè; ma perciò vedevo in lui l'abitudine di chi guarda a un suo scopo, lontano. Notai pure che nella sua fisionomia prevalevano la volontà fredda e l'ambizione; ma la stessa durezza di lineamenti non aveva per me nulla di oscuro.
Proseguiva:
– Ho lottato sempre e non dispero di vincere. – Aggiunse: – Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?
– Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra – risposi.
– La forza di volontà non basta! – ripigliò il giovane. – Bisogna ben determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?
Interrogava l'avvenire.
– Lei riuscirà – dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. – Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.
– Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta…
Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.
E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.
– Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco – disse Ortensia.
Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.
– Dovemmo pernottare in una capanna.
– Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire – disse Marcella a Ortensia.
Pieruccio affermò:
– Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!
– Non è vero! – gridò Guido. – Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.
– Ci arrivammo!
– Storie!
Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.
– Oh che notte, là dentro! Che notte! – ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:
– Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!.. Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!
Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:
– Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.
L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: – Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.
Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.
Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: – Noiosi! – , e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.
Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:
– Fa l'asino, che ci riesci così bene!
Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle ragazze.
Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un'illusione necessaria.
Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.
Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.
Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna);