In faccia al destino. Albertazzi Adolfo

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In faccia al destino - Albertazzi Adolfo

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style="font-size:15px;">      – Indovinate – risposi, ripensando al tempo che mi piacevano i fiori.

      Mino esclamò, pronto:

      – Le freddoline!

      Ma Ortensia:

      – I fiordalisi? Di giugno, quando il frumento è alto e giallo, i papaveri e i fiordalisi, là in mezzo, non son belli forse?

      Non era il fiordaliso che io ammiravo di più, un tempo…

      – La rosa! – gridò Mino con l'entusiasmo di una scoperta indubitabile.

      Via! Ortensia non poteva ammettere che il fiore che più piace a tutti, più piacesse a me.

      – La rosa thea?

      Dissi:

      – Anche le thea hanno le spine…

      Con alacre pensiero, cogliendo le immagini più vive che le venivano alla mente, Ortensia proseguì:

      – La camelia? È stupida! Il mughetto? Sì, è grazioso… ma poi! I tulipani? l'ireos? No, no, non credo. Il tuberoso? Niente di straordinario! Le viole? Peggio!; le viole mammole le han fatte diventar noiose a scuola, con la storia della modestia; le viole del pensiero io non le posso soffrire! Dopo l'ortensia, la viola del pensiero è il fiore più antipatico per me. Ortensia!: potevano ben mettermi un altro nome!

      – Il geranio è bello – disse Mino.

      – Sta zitto, tu! L'orchidea?.. – continuava l'altra. – Ma lo dica, una volta! Il garofano?

      Assentii.

      Mino gridò: – È brutto!

      Ma Ortensia riflettè un istante; e poscia:

      – È vero; è molto bello il garofano!

      Quanti anni eran passati da quando il mondo a me pareva bello anche nei fiori, e il garofano il più bel fiore?

      Rividi nella memoria il mio paese nativo, ai dì di festa; mia madre… Era molto bello il garofano rosso; il fiore del popolo: fiore della forza e della libertà; fiore dell'idea e fiore del sangue.

      – Prendi! – disse Mino portandomene uno, di corsa.

      Ecco… Il calice capace e alto, merlato, ben munito al fondo; i petali copiosi, con quelle brevi frange marginali che sembrano moltiplicarli; il calamo così sottile e lungo, che ai nodi non si piega ma si tronca – frangar non flectar – ; le foglioline del gambo esili ma salde, forti, affilate come lame; e quel colore ardente fra l'umile verde opalino della pianta, e lo sboccio impetuoso fuori dell'intricato cesto, gli danno una apparenza di bellezza audace, di stranezza semplice, di letizia rude, di vigoria nobile e selvaggia.

      Al mio paese, tornando dai vesperi, i giovani portano il garofano all'orecchio, quale segno di conquista; e le ragazze non se ne adornano esse, ma li coltivano con gelosia in una pentola crinata, che adorna la finestra della loro camera, e se ne valgono a prove d'amore; tentazioni, sfide, promesse, premi e pegni d'amore.

      Ma se ci son fiori che appaiono più belli quando sono sbocciati appena appena, o in prima fioritura, il garofano non è bello che nella virilità. Prima, allorchè gl'innumerevoli petali, vivi e freschi, fanno forza al calice che li costringe a non espandersi e nascondono le antere e i pistilli, come per un pudore di adolescenza, allora è di una timidezza senza grazia, di una robustezza troppo impacciata e quasi stenta. Ma quando è maturo e aperto, quando nella festa della sua vita fende il calice, prorompe con vigore esuberante, e i petali, per la fenditura, in basso, formano un bitorzolo bianco come son bianchi gli organi generativi non più nascosti, e in alto i petali sorgono pieni di colore e di sangue, e quelli esterni si chinano e soggiacciono quasi alla stanchezza di una fatica, grande e gioconda; quando da tutta quell'intima complessione tenera e viva sgorga il profumo intenso che non cesserà nella morte, oh allora è mirabile il fiore del desiderio ardente, dell'amore cupido e della voluttà!

      … Ebbene, da quel giorno, spesso Ortensia si mise, insieme, due o tre garofani sul petto; e da quel giorno il garofano perdè ai miei occhi ogni espressione sensuale, e mi parve più bello.

X

      – Ho promesso e mantengo! – proclamò l'ingegner Roveni. – Domani si va alle Grotte.

      Lo ricompensò un clamore di grida gioiose; e subito le ragazze furono intorno a me per costringermi ad andar con loro.

      Anna Melvi urlava:

      – Chi fa l'istanza? chi ci è più interessata? – e sospingeva Marcella, timida e ridente in quel suo modo per cui stringeva un po' le ciglia e velava con le palpebre gli occhi soavi.

      Inanimita, Marcella pregò:

      – Andiamo, Sivori!: sia buono! Se non verrà anche lei, la mamma non ci lascerà andare.

      E la Melvi:

      – Dovremmo rivolgerci al cavaliere. Francamente, tra i due, preferiamo ancora lei!

      Io tacevo con un sorriso incerto.

      – Non capite che Sivori non ne ha voglia? – esclamò Ortensia dopo avermi fissato a lungo, in silenzio.

      – Si annoierà più a restare in casa – ribattevan le altre.

      – No, no! Si vede! È inutile: non-ne-ha-voglia!

      Pronunciando in cadenza l'ultima affermazione Ortensia manifestava malcontento e nello stesso tempo minaccia di abbandonarmi alla mia svogliatezza.

      Io le dissi:

      – A quel che pare, tu sei disposta a andar senza di me. Mi vuoi o non mi vuoi?

      Rispose forte e soltanto:

      – Sì!

      – E io ci verrò!

      Il dì dopo andammo dunque noi sette – io, i tre giovani e le tre ragazze – a far colazione alle Grotte.

      Se durante quella gita io avessi potuto o saputo conoscere a dentro l'animo d'alcuni della compagnia; se avessi potuto scorgere i motivi reconditi di atti in apparenza quasi involontari e di parole in apparenza leggere; se quel giorno avessi pensato un po' meno a me stesso, quanto dolore sarebbe stato evitato?

      Per andare da villa Moser alle Grotte si teneva prima il sentiero che guidava al piccolo oratorio del Crocifisso; ivi si passava per il ponte di legno e si prendeva la strada, la quale or costeggia la destra del fiume, ora se ne allontana; ora aperta, ora chiusa in lembi di bosco o solo ombreggiata da noci e da querce, finchè si arriva all'aspra montagna che la via mulattiera assale fra i castagni frondosi e bistorti.

      L'ingegnere s'accompagnò subito a me, ed Anna, chiassosa fin nella veste rossa, fu costretta a correre innanzi con Ortensia e con Pieruccio, la vittima, schiamazzando. Dietro andavano Guido e Marcella nella lor piena felicità. Roveni, fatti pochi passi, respirò ampiamente come chi si solleva dalle spalle un peso enorme e come dicesse: «il mondo è mio», disse:

      – Questa giornata di svago mi voleva e me la prendo! Moser è rimasto lui alla fabbrica, oggi; ma senza bisogno: ho predisposto tutto io stanotte.

      Era la prima volta che discorrevamo insieme liberamente

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