I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio

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I rossi e i neri, vol. 1 - Barrili Anton Giulio

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Ho veduto allora una botta di terza, data così a tempo, che non l'ho scordata mai più, e mi corre l'acquolina in bocca al solo pensarvi. —

      Così dicendo, il belligero servitore aveva smesso di pulire il ferro, e andava giostrando in aria come un vecchio spadaccino che prova i suoi colpi di riserbo.

      A Maria tutti quei discorsi e quella mimica non dicevano nulla di ciò che voleva sapere.

      – Ma voi non mi dite il perchè di questa novità! – esclamò ella. – Mio Dio! che cos'è egli avvenuto? Forse Lorenzo… —

      E la povera fanciulla impallidì, e fu costretta ad appoggiarsi alla parete, tanta era l'improvvisa commozione.

      – Oh, la non si spaventi, signorina! – gridò Michele, deponendo la spada e facendosi tutto sollecito accanto a lei. – Da quanto ho potuto capire, egli è solamente padrino. E poi, fosse anco lui, il signor Lorenzo sa pure tenerla in mano, una lama. Quello è un uomo che, non fo per dire, darebbe dei punti a suo padre. —

      La fanciulla non istette ad aspettar la fine del discorso di Michele. Ridiscese la scala, corse alla camera di Lorenzo, e, trovato l'uscio socchiuso, entrò deliberatamente da lui.

      Lorenzo stava scrivendo; ma al fruscio della veste, alzò il capo e si volse a guardare.

      – Orbene, Maria? – disse egli, come per chiederle che cosa volesse.

      La fanciulla era bianca in viso come un cencio lavato, e appoggiava la mano alla spalliera del letticciuolo di Lorenzo, quasi fosse per cader tramortita.

      Allora il giovine fu pronto ad alzarsi e correrle incontro.

      – Che cosa avete, mia buona Maria? Che cos'è egli avvenuto? —

      La fanciulla non rispose alla dimanda di Lorenzo; e piantandogli addosso due occhi scrutatori, gli chiese a sua volta:

      – Voi andate a battervi? —

      A quelle parole, Lorenzo capì la cagione dello smarrimento di Maria, e si sovvenne dell'incarico dato a Michele, che aveva potuto far nascere in lei il sospetto. Però, assunta l'aria più grave, postosi una mano sul cuore e stendendo l'altra verso il ritratto di suo padre, rispose:

      – Vi giuro, Maria, che non vado a battermi io. Sono padrino, insieme coll'Assereto, di un certo dottor Collini che avete veduto venir qua stamane, e al quale, come ad un antico compagno di scuola, non ho potuto dire di no. Eccovi la pura verità; mi credete voi?

      – Oh, vi credo, Lorenzo, vi credo. Voi non mentite mai. – E il volto della fanciulla si rasserenò; le lagrime che stavano per isgorgarle dagli occhi alla pressione dell'improvviso sgomento, furono in quella vece spremute dalla gioia.

      Avete veduto mai la campagna sorridere amorosamente ad un bel raggio di sole, dopo la tempesta? Gli smorti colori si ravvivano, le foglie abbattute si risollevano, e le gocce d'acqua che le avevano flagellate pur dianzi, riposano tranquillamente nelle verdi cavità, scintillando come altrettanti smeraldi.

      Quanto affetto per Lorenzo! direte voi; e giustamente, nell'osservare il fatto in sè, non già nel cercarne una causa riposta in altr'ordine di pensieri. Maria amava Lorenzo di quell'unico amore che ella sentisse, e che non poteva definire la mercè di accorti raffronti, essendo l'unico che ella avesse mai conosciuto.

      Lorenzo poi era un giovine eletto; amava Maria come una sorella, e per essa avrebbe corso ogni risico più grave. Ma v'erano di certe cose alle quali egli non avrebbe pure ardito pensare, temendo di commettere un sacrilegio. A dirvela in breve, Maria era per lui un angelo, cioè un essere di natura diversa dalla nostra, diafano, etereo, al quale non si potesse accostarsi se non dopo aver lasciato in disparte il pigro involucro della materia.

      E Lorenzo non aveva il torto. Se egli è vero che gli angeli siano essi di natura superiore alla nostra, se è vero che questi esseri siano stati creati da messer Domineddio come suoi messaggeri e testimoni della sua bontà infinita, intermediarli tra il cielo azzurro e la creatura terrestre, Maria aveva tutti i requisiti per essere contata nel numero. In fin de' conti ella poteva passare per un angelo, il quale fosse toccato in sorte alla terra.

      Non aveva le ali, ecco il guaio. Ma è forse necessario avere le ali, per essere angeli? E non sarebbe per avventura un guaio più grosso? come a dire una gran tentazione a volar via da questo mondo gramo?

      V

      Come la vicinanza del Paradiso non togliesse a due amici di trovarsi in Purgatorio.

      La collina di Albaro è la più bella collina che Domineddio abbia posto accanto ad una città, se pure non è meglio dire che Genova è l'unica città la quale sia stata posta accanto ad una così bella collina.

      Genova, come tutti sanno, è edificata sulla spiaggia del mare, nel fondo di un golfo e alle falde di un contrafforte degli Appennini, che agli occhi del riguardante offre sembianza di anfiteatro, ed è, topograficamente parlando, un vasto triangolo inclinato, la base del quale è addossata al mare, e i lati, costretti fra due vallate naturali, salgono al vertice, che per una cresta si ricongiunge alle montagne vicine, sproni, o contrafforti che vogliam dire, dell'Appennino ligustico.

      In quelle due vallate scorrono due torrenti, i quali non se l'avranno a male se li accuseremo di portare assai meno acqua che non consenta l'onorata ampiezza dei loro alvei la Polcevera a ponente, e il Bisagno a levante. La collina di Albaro è di là dal Bisagno, che essa accompagna in linea parallela fino alla foce.

      Di che alberi era piantata nei tempi antichi la collina d'Albaro? Grave questione, ma fortunatamente oziosa. Oggi è piantata di palazzi, e un albero si paga tant'oro, a volerlo naturale. I pochissimi che vi sono, stanno colà soltanto per fare uffizio di cornice ai palazzi sullodati, tra i quali primeggia per bellezza il __Paradiso__, e per memoria quell'altro che diede albergo all'autore di __Don Giovanni__, della __Parisina__ e del __Lara__.

      Un nostro faceto amico, in una sua storia inedita della collina d'Albaro, deriva i tre nomi che la dividono, da tre fratelli che la avevano avuta in retaggio da uno dei soliti Noè dell'antichità; i quali tre fratelli si chiamavano Luca, Martino e Francesco. C'è infatti un San Luca, un San Martino e un San Francesco d'Albaro. Quest'ultimo è il più meridionale di tutti; laonde voi, quando abbiate fatto dieci minuti di strada dopo il ponte della Pila, vi trovate alle falde della collina incerto tra due strade, come l'asino di Buridano tra due misure di fieno. La strada a sinistra risale dolcemente la collina a San Martino, e di là scende a Sturla, a Quarto, a Quinto, a Nervi, e giù, giù, fino in capo al mondo; quella a destra piega un tratto verso mezzogiorno, poi sale faticosamente la collina a San Francesco d'Albaro, per ridiscendere verso San Luca, e andarsi a ricongiungere con la sua sorella di sinistra.

      Noi, con licenza dei lettori, non baderemo che a San Francesco d'Albaro, il quale, sempre topograficamente parlando, ci presenta ancora tre viottole, le quali corrono da settentrione a mezzogiorno, tutte perpendicolari alla via maggiore, che taglia la collina precisamente accanto alla villa del Paradiso. La seconda di queste viottole finisce come le altre ad un ciglione che sopraggiudica il mare; ma su questo ciglione essa ci ha il particolare ornamento dell'antica chiesuola di San Nazaro; chiesuola senza tetto e senza lastrico, non più destinata ad altro che a qualche sacrificio cruento. Ed anche questa destinazione arbitraria non doveva durare. Dopo il '60 la chiesuola è scomparsa, tramutandosi in una casa a parecchi quartieri, per uso e dilettazione estiva di villeggianti. Poesia delle rovine, addio; l'utilità ti soverchia. E infine, non ce ne addoloriamo oltre misura; l'istesso San Nazaro, che insieme col suo buon collega San Celso portò primo ai Genovesi il verbo dell'amore e della pace fraterna, non doveva essere troppo contento dei riti sanguinosi a cui le rovine della sua chiesuola erano state consacrate.

      Il

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