Il ponte del paradiso: racconto. Barrili Anton Giulio
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Da quando si conoscevano? Da un mese, cioè dai primi giorni che le signore Cantelli erano capitate a Venezia. Viaggio e fermata lunga, tutto era stato per Federigo, che non poteva sperare una licenza per quella fin d'anno, dopo averne già ottenuto parecchie a brevi intervalli. Le mamme, per verità, ne vorrebbero una al mese, e si dolgono delle irragionevoli durezze della disciplina militare, che a sentirle loro non perderebbe nulla a essere più compiacente; ma è colpa loro, se han voluto i figliuoli ufficiali di terra o di mare. Ed anche a Venezia, così presso a Federigo, non potevano mica averlo sempre in compagnia: quel benedetto servizio aveva le sue esigenze quotidiane. Perciò altri doveva supplire alle assenze di Federigo, mettendosi a servizio delle signore Cantelli.
Naturalmente, c'era in prima riga Raimondo Zuliani, l'amico del banchiere Anselmo, e in continua relazione d'affari con lui. Ma anche Raimondo aveva le sue ore impegnate: poteva fare una visitina, ed anche a brevi intervalli, non già mettersi a loro disposizione per visitar chiese, palazzi e musei. Si sa, quando per una ragione o per l'altra si capita in una città ragguardevole, in una città storica, ricca di memorie, di capolavori, di meraviglie d'ogni genere, è obbligo di veder tutto, per mostrar poi alla gente di non aver viaggiato come bauli. L'arsenale lo avevano visto con Federigo, che era là come in casa sua, e ne faceva gli onori. San Marco, i Frari, la Salute e le altre chiese maggiori si potevano vedere via via nei giorni festivi, in occasione della messa. Ma il Palazzo dei Dogi, ma l'Accademia, il Museo Correr, i palazzi del Canal Grande, almeno i più singolari, i più celebrati, non si potevano visitare senza la compagnia di qualche amabile cicerone, che per l'appunto non fosse un cicerone di piazza.
Per questo ufficio il signor Brizzi, messo anche lui a disposizione delle signore, non parve a breve andare l'uomo più adatto; molto amabile, sicuramente, quantunque a modo suo, ma niente cicerone; ed egli, dopo tutto, era più utile al banco. O allora? Allora, quale occasione più favorevole dell'amico Aldini? Quello era proprio l'uomo, amabile che nulla più, cicerone perfetto, e padrone di tutto il suo tempo, non avendo niente da fare; condizione invidiabile, checchè si voglia argomentare in contrario.
E qui diciamo di lui tutto quello che occorre, per non averci a ritornare con cenni e notizie a spizzico, che paian venire di contrattempo, e intralcino ad ogni modo il racconto. Filippo Aldini era stato ufficiale di cavalleria, e in quella divisa era capitato quattro anni addietro alla guarnigione di Padova. Da Padova si è in un salto a Venezia, e di quei salti il tenente Aldini ne aveva già fatti parecchi. A Venezia, un bel giorno, che è che non è, prese la risoluzione di lasciare il servizio. Lo avevano forse attratto i cavalli di San Marco? Sia lecito immaginarlo, in mancanza di notizie più esatte. Quanto al servizio, lo poteva piantar lì senza scrupolo, non avendo egli presa la via delle armi coll'intenzione di percorrerla intiera. Era ricco, direte. No, non era ricco. Ricchissima era stata la sua famiglia, d'antico ceppo parmense; ricchissima sotto i cessati governi; ma in due o tre generazioni di oziosi aveva trovato il modo di andarsene a rotoli. Il mutuo e l'ipoteca, due invenzioni pestifere! Al conte Filippo Aldini, morto il padre e pagati i debiti della successione, restava appena una tenuta dell'alto Parmigiano, senza ipoteche, grazie al cielo, e che poteva rendere ancora un anno per l'altro le sue ottomila lire. Mettiamo tra restauri e miglioramenti un migliaio di lire: un altro migliaio all'agente, incaricato di riscuotere e di trasmettere; ne avanzavano ancora seimila. Solo com'era, modesto nelle abitudini, temperato nei desiderii, con seimila lire d'entrata poteva campare. Il vivere non era caro a Venezia; ed egli, poi, rinunziava necessariamente al cavallo. La sua esistenza trascorreva placida in apparenza, uniforme e cheta nei suoi andamenti, come una gondola sull'acque morte della Laguna. Giovine di bell'aspetto, intelligente, garbato, serio e discreto, piaceva alle donne, e non dava sui nervi agli uomini come tanti farfalloni vanagloriosi. Aveva le sue rimesse da Parma, pagabili presso il banco Zuliani, e da questa circostanza era nata la sua relazione con Raimondo, che aveva preso a volergli bene assai presto. L'amicizia è come l'amore; nasce come e quando le pare. Del resto, così serio e garbato com'era, l'Aldini non poteva non piacere a Raimondo, che se ne fece tosto un amico, e a breve andare un compagno inseparabile. Raimondo Zuliani aveva l'animo aperto e schietto; quando si dava, si dava intiero. Per contro, aveva l'amicizia invaditrice; l'amico era la cosa sua; se avesse potuto, ne avrebbe fatto il suo schiavo; per intanto lo considerava come il suo alunno, il suo pupillo, il suo fratello minore, a cui egli dovesse dar consiglio, indirizzo, protezione efficace.
Con questo suo modo d'intendere l'amicizia, non poteva certamente piacergli molto che l'amico suo, così ricco di belle doti, e così intelligente, non facesse nulla, non si occupasse utilmente di nulla. Filippo Aldini passava, sì, alle volte, qualche ora a dipingere, cieli e marine, casupole e barche di pescatori, su tavolette alte una spanna e larghe in proporzione; un grazioso talento, quello, per farsi merito con qualche famiglia di amici e di conoscenti, che gradisse il presente del bozzettino; ma ci voleva ben altro che quattro fregacci, tirati giù a punti di luna, per diventare un pittore, e metter l'arte a profitto. Leggeva, più spesso, leggeva anzi ogni giorno, riviste, trattati scientifici, romanzi e viaggi; ma a che gli serviva tutto ciò? Leggere le pubblicazioni più recenti, tenersi al fatto delle novità intellettuali, è una bellissima cosa, ma non può dirsi un lavoro; ci si nutre lo spirito, non ci si guadagna un soldo, e troppi se ne buttano via dal libraio. Raimondo Zuliani, che sapeva spendere, aveva anche imparato a guadagnare, e non ne perdeva mai l'uso.
Ma infine, egli faceva il banchiere, e i suoi cominciamenti erano stati modestissimi. Poteva forse applicare la sua regola al caso di Filippo Aldini? Anch'egli, finalmente, senza avvedersene, o senza scandalizzarsene troppo, cedeva all'autorità della massima volgare, che un nobile, barone o conte, marchese o duca che sia, non è tagliato pel lavoro fruttifero. Va bene che il lavoro nobilita; ma ciò significa che il lavoro è fatto per chi non è nobile ancora, potendo per contro levare la nobiltà, o per lo meno offuscarla, a chi già la possiede; ragionamento che va, o par che vada, a filo di logica, e non fa neanche una grinza.
Un'altra considerazione più seria aveva persuaso Raimondo, chetati i suoi dubbi, i suoi timori di fratello maggiore. Solo al mondo, e modesto nelle sue abitudini, con quelle seimila lire nette all'anno, l'amico suo poteva vivere e fare in società una discreta figura. Non giocasse; era il punto essenziale. Ma l'amico suo aveva in orrore le carte. Così il fratello maggiore uscì d'apprensione, e non pensò più alla utilità d'un proficuo lavoro; egli intanto mulinava altri disegni. Con quella gioventù, con quella bella presenza, con quel titolo, poi, con quel titolo, destinato ad avere il suo valore, specie se titolo autentico, non derivato dal motu proprio di chi ne fa pompa, non c'era caso che Filippo Aldini facesse un bel matrimonio, un matrimonio brillante? Il matrimonio brillante è quello in cui da una delle due parti entrano molti quattrini, a fortificare l'alleanza dei cuori. Raimondo Zuliani, che per sè non aveva preso un soldo di dote, ragionava così per una volta tanto, seguendo l'opinione dei più. Finalmente, si trattava della felicità di Filippo, del suo inseparabile amico, del suo fratello minore; senza contare poi questo, che, felice egli stesso nel matrimonio, avrebbe ammogliato l'universo mondo.
Ma dov'era la ricca erede da gittar nelle braccia del suo carissimo Aldini? Non la trovava lì per lì da nessuna parte, e molto meno a Venezia. Qualche grosso patrimonio esisteva ancora sulle Lagune, specie nel ceto patrizio, e le ragazze con una dote vistosa, o con vistose speranze, non ci mancavano davvero. Ma c'era un guaio, che alla perspicacia di Raimondo non doveva sfuggire. Si poteva egli credere che le famiglie patrizie, dai nomi illustri, risalenti alla “Serrata del Gran Consiglio„, sentissero il gusto di rinunziare alle alleanze tra loro, e il bisogno di accettare un “conte di terraferma„ con seimila lire d'entrata? Non di là, dunque, non di là, bisognava orientarsi, e molto saviamente Raimondo ne aveva smessa l'idea.
La sposa, per quel conte, doveva venir di lontano alla sua immaginazione sempre sveglia; e doveva venire dopo due anni d'attesa, due anni che infine gli erano serviti per conoscer meglio l'Aldini e per stimarlo di più; tanto in quei due anni l'amico suo aveva guadagnato ancora in serietà, rompendola asciuttamente con certe galanterie da vagheggino, e a grado a grado liberandosi da tanti perditempi del suo primo anno di vita veneziana. Ah, quella figliuola del suo collega di