Il ponte del paradiso: racconto. Barrili Anton Giulio

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Il ponte del paradiso: racconto - Barrili Anton Giulio

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intorno ai begli occhi glauchi, e tra gli occhi e le guance due pieghettine, due cose da nulla, ma ad ogni modo, e comunque attenuate da cortesi eufemismi, due borse. Piccolo guaio delle bionde, che sogliono avere la pelle più tenera. Si vedrà? Non si vedrà? Nel dubbio, la bella bionda si astiene.

      Raimondo uscì, per far quattro passi: un'ora dopo era già di ritorno, con un fascio di giornali, che prese a leggere, facendone parte di tanto in tanto a sua moglie; per le notizie d'arte e di cronaca, s'intende, che la politica non era nelle grazie della bella signora.

      – Strano! – diss'ella in un momento di sosta del suo cortese lettore. – Il tuo signor Filippo non si lascia vedere da noi, nel primo giorno dell'anno nuovo.

      – O come? – esclamò Raimondo. – Non c'era stamane, avendo cominciato l'anno da noi? Del resto, ricordo di aver ricevuto un suo biglietto di scusa, e di scusa legittima. —

      Così dicendo, trasse di tasca una lettera e la pose sulla tavola, davanti a sua moglie. Livia la prese, dopo alcuni minuti secondi; l'aperse con atto lento e svogliato; finalmente la lesse. Erano pochi versi di scritto e dicevano così:

      “Caro Raimondo.

      “Vorrei venire oggi al tuo banco, per darti ancora un saluto; ma ho un gran sonno, un gran sonno. Chiederai perchè io non abbia dormito stamane appena arrivato a casa. La rea cagione è questa, che ho trovato a casa un telegramma da Verona, un telegramma di due vecchi amici, di due commilitoni, che mi annunziavano la loro venuta, e per l'appunto in giornata, volendo passare a Venezia tre o quattro giorni della loro licenza. Li ho sulle braccia, e mi è toccato dar ordini per preparar loro l'alloggio nel mio modesto quartierino. Stasera debbo andarli ad aspettare alla stazione; per intanto vo a letto, che l'ho ben guadagnato. Di tutto cuore, addio; ossequj ed augurj senza fine alla tua Signora.

Filippo.„

      Il biglietto dell'Aldini, così innocente nella sua semplicità, aveva già seccato non poco Raimondo Zuliani. Quei due amici, e vecchi commilitoni, proprio non ci volevano; guastavano infatti, o potevano guastare tutti i disegni ch'egli aveva formati in quei giorni. Con due vecchi commilitoni sulle braccia, ed ospiti per giunta, come sarebbe riuscito Filippo a far la sua corte? Ed era urgente di farla; bisognava battere il ferro mentre era caldo. A farlo a posta, quel caro Filippo era un così strano ragazzo! Aveva preso fuoco e levata come si suol dire la fiamma; poi giù tutto ad un tratto, come se fosse stato un fuoco di paglia. Strano ragazzo! Ma occorreva avere senno per lui.

      – E così, vedi, non ha potuto venire; – disse Raimondo, poi che sua moglie ebbe deposta la lettera. – Ci ha ospiti.

      – Peccato! – esclamò la signora. – Appunto per questa sera gli si sarebbe potuta dare la chiave del palco, per poterli condurre alla Fenice.

      – Un palco di seconda fila, per uomini, eh, via! – osservò Raimondo. – Non l'hai voluto mai cedere per le signore Cantelli!..

      – Oh, quelle son ricche, e possono provvedersi.

      – Pazzerella! Quando hai qualcheduno in uggia!..

      – Ma che! ora tu esageri, secondo l'uso; – notò la signora. – Di' piuttosto che non sento il bisogno di buttarmi nelle loro braccia. La signora Eleonora, con quella sua mutria, per esempio, non è proprio fatta per attirarmici. —

      Raimondo sorrise a sua moglie, e un pochettino anche a sè.

      – Dicevo bene, – pensò egli, – che non era per la figliuola. Ma quella povera signora Eleonora, com'è mal giudicata da mia moglie! Con tutto il suo sussiego apparente, è la miglior pasta di donna che si possa immaginare. E se Livia sapesse ancora… Ma acqua in bocca per ora, ed ogni cosa al suo tempo. —

      Quella sera la signora Livia si ritirò presto nelle sue stanze. Il ricamo turco, che aveva tentato di ripigliare, le dava noia; ed anche le occorreva pensare ai suoi poveri occhi, che volevano il giorno dopo essere in ordine, freschi come rose. Raimondo stette ancora un pezzo alzato, e passò il resto della lunga serata casalinga, in parte ripassando conti, in parte scrivendo minute di lettere d'affari, da trasmettere la mattina seguente al signor Brizzi. E tenne i suoi bravi segreti in corpo, diventando un miracolo di prudenza diplomatica ai suoi occhi medesimi. Così, grandemente soddisfatto di sè, dormì quella notte veramente di gusto, sognando di aver tutti dalla sua, la signora Eleonora e il banchiere Anselmo, e di unire in matrimonio quell'angelo della signorina Margherita col suo caro Filippo, col suo dolce pupillo, col suo fratello minore.

      Lo incontrò il giorno dopo, tra il tocco e le due, presso la Torre dell'orologio, mentre egli, ritornato da far colazione, rientrava al suo banco. Filippo Aldini era solo.

      – Oh, bravo! – gli disse. – Ho il piacere di combinarti. E i tuoi amici di Verona?

      – Li ho lasciati poc'anzi; – rispose Filippo. – Sono andati a fare il giro del Canale, che iersera arrivando non hanno potuto godere. Quanto a me, capirai, dopo tanti anni di barchettate…

      – Hai l'acqua fino alla gola, t'intendo; e li hai lasciati andar soli, per rivederli più tardi?

      – Sì, abbiamo preso appuntamento per le quattro; – disse Filippo.

      – Se credi, – ripigliò Raimondo, – puoi condurli questa sera da noi. I tuoi amici sono i nostri.

      – Grazie, no, grazie; – rispose prontamente Filippo. – Per dirti il vero, sono un po' orsi.

      – Ufficiali di cavalleria, – notò Raimondo stupito, – commilitoni tuoi, e tanto diversi da te? Basta, non insisterò; tu devi sapere ciò che è più conveniente. Parliamo di ciò che importa. Sei libero?

      – Sì, fino alle quattro, ti ho detto.

      – Bene; allora accompagnami al banco. Si discorre male, per via. —

      L'Aldini capì benissimo dove Raimondo volesse andare a parare, e si adattò a seguirlo. Del resto col suo prepotente amico non si poteva fare altrimenti.

      Come furono al banco Zuliani, e ben chiusi nello studio di Raimondo, questi incominciò allungando la mano sulla scrivania, e facendo scivolare verso l'Aldini una scatola di lacca giapponese, aperta, e piena di spagnolette. La seduta voleva esser lunga.

      – Siedi, mio caro; – disse Raimondo. – Qui sono Tokos, Giubbeck, Delizie del Serraglio, ecc., ecc. “Scegli qual più t'aggrada„.

      – No, grazie, non fumo; – rispose Filippo. – Ma tu hai da dirmi…

      – Oh, tante cose. E prima di tutto ho da chiederne una a te. Come sei rimasto contento ieri mattina del tuo ufficio di accompagnatore?

      – Contento? di un dovere compiuto? – disse Filippo. – È così semplice, poi. In gondola, quattro chiacchiere senza costrutto, molti elogi alla tua cena sontuosa; e finalmente, alla Riva degli Schiavoni, ossequj e riverenze.

      – Nient'altro?

      – Nient'altro.

      – Male; – conchiuse Raimondo. – Avevi da promettere una visita, chiedendo se le signore avevano bisogno di te, per qualche gita qua e là, che tu saresti stato felicissimo di metterti a loro disposizione. Ma che razza di cavaliere mi sei tu diventato?

      – Hai ragione, dovevo pensarci. Ma che vuoi? Questo costume di buttarmi avanti, io non l'ho avuto e non l'avrò mai; colle signore Cantelli, poi, meno che mai.

      – E

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