Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - Botta Carlo

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diventò spavento. Veramente uomini a posta scorrevano la Germania, massime i Paesi Bassi, e pretendendo magnifiche parole a rei disegni, insidiavano ai governi, ed incitavano i popoli a cose nuove: si temeva che per le sfrenate dottrine tutte le province s'empissero di ribellione. Si aveva anche in Italia avuto odore di tali mandatarj, i sospetti crescevano ogni giorno. Dava ancora maggior fondamento di temere il sapersi, che si trovavano in tutti i paesi non solo uomini perversi, i quali pei malvagi fini loro desideravano far novità nello stato, ma ancora uomini eccellenti, che levati a grandi speranze dalle riforme già fatte in quei tempi dai principi, e credendo potersi dare una maggior perfezione al vivere civile, non erano alieni dal prestar orecchie alle lusinghevoli parole. Il pericolo si mostrava maggiore in Germania ed in Italia per la vicinanza dei territorj, per la facilità e la frequenza del commercio con la Francia, e per la comunanza delle opinioni.

      Tale era la condizione dei tempi; e per dar principio a favellare dell'Italia, il re di Sardegna, trovandosi il primo esposto, per la prossimità dei luoghi, a tanta tempesta, aveva più che ogni altro principe, cagione di pensare a provveder al suo stato. Del che tanto maggior necessità il premeva, che non gli era nascosto, che nella parte de' suoi dominj posta oltre l'Alpi, le nuove opinioni s'erano largamente sparse, e ch'ella poco attamente si poteva difendere dagli assalti Francesi, quando si venisse a rottura di guerra con la Francia. Sapeva di più, che i suoi stati erano principalmente presi di mira da quella compagnia di propagatori di scandali, che s'era unita in Parigi, secondochè sfacciatamente uno di loro favellando in pubblico aveva predicato.

      Per la qual cosa, veduto il pericolo imminente, coloro, i quali reggevano i consigli della corte di Torino, ristrettisi con gli ambasciadori e ministri degli altri principi d'Italia, rappresentarono loro, che i casi avvenuti nel desolato reame di Francia davano giusta cagione di timore per la quiete d'Italia; che l'assemblea nazionale, acciocchè i principi europei non potessero voltare i pensieri loro agli affari di Francia, pensava, per mezzo di seminatori di scandali e di ribellione, a turbar la quiete altrui; che già i mali semi incominciavano a sorgere, stantechè sebbene fosse stato continuo il vigilare del governo, e continue le provvidenze date, non s'erano potute evitare le compagnie segrete, ed anche alcuni, quantunque leggieri, moti nel popolo; che tali ingratissimi effetti si dimostravano più o meno nelle altre parti d'Italia; che per verità attentamente s'affaticavano in ogni luogo i principi per estirpare queste occulte radici, per chiudere i passi ai malvagi mandatarj, per iscoprir le congreghe segrete, per allontanar le turbazioni; ma non ravvisarsi quale dei due alfine avesse a restar superiore o la vigilanza dei governi, o la pertinacia dei novatori, se non si prendevano nuove e più accomodate risoluzioni; che la necessità dei tempi richiedeva che i principi d'Italia si stringessero in una lega comune a quiete e difesa comune; poichè quello, che spartitamente non avrebbero potuto conseguire, l'avrebbero ottenuto per l'efficacia e pei soccorsi comuni. Aggiunsero, che per verità questo disegno era già loro venuto in mente da gran tempo, di tanta opportunità egli era; ma che gli aveva ritirati dal proporlo il sapere che Giuseppe, imperatore d'Allemagna, pareva volersi condurre ad assaltar con l'armi nel proprio loro covile quei nemici dell'umanità e della religione; che ora, cambiate le circostanze per la morte di Giuseppe, e volti i pensieri di Leopoldo suo successore piuttosto a preservare, e conservare il proprio, che ad assalir l'alieno, avvisavano esser tempo opportuno di ordinare, e di stringere i vincoli di una comune difesa; che già il fuoco era vicino a consumare la Savoia; che il Piemonte era in procinto di ardere; e chi avrebbe potuto prevedere le calamità d'Italia, se non si spegnevano queste prime faville? che però, visti i pericoli sì gravi e sì imminenti, il re giudicava doversi, più presto il meglio, stringersi una lega fra tutti i potentati d'Italia, non già diretta a danno altrui, ma solo a preservazione propria, a tenersi guardati l'un l'altro dalle insidie dei mandatarj francesi, a mantener la quiete negli stati, a parteciparsi vicendevolmente le notizie sulle faccende presenti, e ad ajutarsi con l'armi e coi denari ove nascesse in questo luogo, od in quello qualche turbazione. Nè pretermisero i ministri Sardi di spiegar meglio quali dovessero essere i membri della lega, nominando particolarmente il re loro signore, l'imperatore d'Allemagna, la repubblica di Venezia, il papa, il re di Napoli ed il re di Spagna per la parte di Parma. Il re di Sardegna s'era già chiarito per alcune pratiche segrete della mente dei re di Napoli e di Spagna, che acconsentivano ad entrar nella lega; il papa vi si accostava ancor esso, siccome quello che ardeva di sdegno a cagione delle innovazioni effettuate in Francia circa gl'interessi spirituali e temporali della religione. Solo la repubblica di Venezia se ne stava sospesa, considerando quanto questa lega, ancorchè apparisse pacifica e meramente difensiva, avrebbe fatto ingrossar le armi in Italia, e chiamato forti eserciti di Allemagna, se le cose venute all'estremo avessero necessitato l'esecuzione; cosa sempre, e non senza cagione detestata da quella repubblica. S'aggiungeva, che non avendo essa pur testè voluto collegarsi con Giuseppe contro il Turco, naturale ed eterno nemico dello stato suo, del qual rifiuto ne aveva anche avuto le male parole da quell'imperatore in Trieste, pareva enorme al senato lo stringersi ora in alleanza con Leopoldo suo successore in una impresa evidentemente dirizzata, quantunque sotto parole velate, contro la Francia, amica vera e necessaria della repubblica. Nè grande era il timore, che aveva il senato delle nuove massime francesi; poichè la natura Italiana molto eminente negli stati Veneti efficacemente si opponeva alla loro propagazione: poi le consuetudini da tempi antichissimi radicate nell'animo dei popoli, e l'amore che portavano al loro governo, non consentivano; ma erano continue, e forti le istanze del re di Sardegna, e degli altri alleati, acciocchè il senato si risolvesse, perchè, se non avevano molta fede nelle armi Venete, avevano gran bisogno del nome e dei denari della repubblica.

      Miravano tutte queste pratiche ad introdurre in Italia le medesime deliberazioni, ch'erano state prese in Germania dall'Austria e dalla Prussia dopo la morte di Giuseppe, e l'assunzione di Leopoldo. Erasi Leopoldo collegato con Federico Guglielmo di Prussia a sicurezza comune contro gli appetiti immoderati di Caterina di Russia, e contro le vertigini della Francia. Ma questa congiunzione tendeva a difendersi, non ad offendere; i trattati di Pavia e di Pilnitz, in cui si suppose essere stata stipulata la guerra, e lo smembramento della Francia, furono trovati e menzogne politiche per apporre a Leopoldo risoluzioni guerriere ed ostili, che non fece, e per stimolare a maggior empito i Francesi, che già con tanto empito correvano.

      Ma morto Leopoldo, ed assunto al trono il suo figliuolo Francesco, principe giovane, ed ancora inesperto delle faccende, i negozj pubblici si piegarono a diverso, anzi a contrario fine. Caterina di Russia, la quale, visto il procedere temperato di Leopoldo e di Federigo Guglielmo, si era constituita pubblicamente, volendo pur muovere qualche cosa in Europa, la protettrice dell'antico governo di Francia, dimostrava con molte protestazioni volerlo rinstaurare. Non doversi, spargeva, un re virtuoso lasciar in preda a gente barbara; diminuita la potestà regia in Francia, diminuirsi ancora per riverbero in tutti gli altri regni; avere gli antichi per rispetto di un solo proscritto, preso le armi contro stati potenti: perchè si resterebbero i principi d'Europa dal correre in ajuto di un re, e di tutta una famiglia regia prigione, di tanti principi esuli, di tutto il fior d'un regno perseguitato e ramingo? l'anarchìa esser il pessimo dei mali, e più quando veste le sembianze della libertà, perpetuo inganno dei popoli; tornare l'Europa nella barbarie, se presto non si rimediasse; quanto a lei, essere parata ad opporsi con tutte le forze sue alla moderna barbarie, come Pietro il Grande, glorioso suo antecessore, aveva combattuto e superato un nemico ostinato, e sempre pronto ad infestar con l'armi i popoli vicini. Ora esser tempo d'insorgere, ora di unirsi, ora di pigliar l'armi per frenar quegli scapestrati di Francia: ciò richiedere la pietà, ciò domandar la religione, ciò volere l'umanità, ed ogni più santo, ogni più utile interesse d'Europa.

      Queste, ed altre simili cose diceva continuamente Caterina, ed insinuava destramente nell'animo dei principi, massimamente di Francesco e di Federigo Guglielmo. Nè mancarono a se medesimi in tale auguroso frangente i fuorusciti francesi, e più i più famosi ed i più eloquenti, i quali erano indefessi nell'andar di corte in corte, di ministro in ministro per raccomandar la causa del re, la causa stessa, come affermavano, dell'umanità e della religione. A queste instigazioni l'imperatore Francesco, che giovane d'età aveva già assaggiato la guerra all'assedio di Belgrado, deposti del tutto i pensieri pacifici di Leopoldo, e non dando ascolto ai ministri, nei quali suo padre aveva avuto più fede, accostossi ai consigli di coloro, che dipendendo dalla Russia, lo esortavano ad assumere l'impresa, ed a cominciar la guerra.

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