Santa Cecilia. Barrili Anton Giulio

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Santa Cecilia - Barrili Anton Giulio

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quali era un ramo secondario. Colà vidi Cecilia, la bellissima fanciulla che doveva soggiogarmi, e, sollevando lo spirito mio a desiderii infiniti, precipitarmi nell'abisso. —

      Qui il pazzo si fermò; due lagrime gli scesero giù dalle guance, ed egli, senza pure asciugarle, si stette immobile e senza parole per lunga pezza, in atto di chi pensa e, con l'amara voluttà delle ricordanze, ricostruisce il suo tempo perduto.

      Noi rispettammo il suo silenzio, e taciturni aspettammo ch'egli si facesse a romperlo.

      IV

      Come si riebbe da quella estasi malinconica, e facendosi scorrere una mano sulla fronte, il pover'uomo proseguì:

      – Nata, siccome vi ho detto, di nobilissima gente, cresciuta in mezzo agli agi di una splendida vita, Cecilia era il desiderio dei giovani patrizii di Roma.

      Era pur bella, nella sua serena tranquillità! Biondi capegli le incoronavano la fronte alabastrina, su cui non faceva ruga mondano pensiero; gli occhi nerissimi non scintillavano di voluttà come quelli delle Eleusine, sibbene spiravano un fuoco soave; e talvolta, in mezzo alla lieta comitiva dei parenti e degli amici che le si raccoglieva dintorno sotto le magnifiche arcate dell'atrio domestico, essi illanguidivano, assorti in una contemplazione divina.

      Vi parlo, con parole nuove, di cose antiche, le quali allora io non avrei neppur saputo colorire, perchè non sempre mi era dato d'intenderle. Ricordate che noi assistevamo alla rovina di un vecchio mondo e ai nascimenti di un nuovo. La confusione era nelle lingue, nei riti, nel costume, nei pensieri, e da per tutto. Il greco, il germanico, l'assiro, l'egizio, il gallo e il britanno, si confondevano colà, in quel vasto centro del mondo, e davano temperanze svariate ai colori, forme nuove ai modi del vivere.

      Io paragonavo nel mio cuore Cecilia a Diana, perchè la mia educazione pagana non trovava altro esempio di purezza che quello della casta e solitaria dea delle selve. Dopo la mia vita militare sul Baltico, avrei potuto paragonarla assai meglio ad una delle belle ed ispirate profetesse dell'isola di Rugene, ad una sacerdotessa di Herta, la invisibile ed ignota Dea della Germania.

      Ma anche prima, ed allorchè vidi per la prima volta le mani di Cecilia posarsi sul cembalo e gli occhi suoi cercar l'infinito, ben mi accorsi che Diana cedeva al raffronto; bene intesi allora che una nuova donna era nata, non pure meno materiale di Cerere, ma più pensosa di Minerva e più casta di Diana: ch'ella recava in terra l'immagine della Venere celeste, che i miei concittadini, per consiglio di paurosa riverenza, avevano collocata nelle nubi, molto più in su dell'Olimpo.

      E l'amai, l'amai con tutte le potenze dell'anima. Intrinseco del fratel suo e tenuto in gran conto dal padre, io passavo i miei giorni nella sua casa, alternando con lei i suoni del cembalo e le canzoni.

      Mi ricambiò ella?.. Oh, Cecilia non amava gli uomini se non come fratelli, e l'essere meco, il conversar meco assiduamente, non la turbò, come suole turbare i nostri animi la fiamma dell'amore, come la sua vista turbava l'animo mio. Era la sua vita un'estasi continua, ogni suo sguardo, ogni atto, ancor che lieve, l'adorazione di una cosa ignota agli occhi della mia mente mortale; e non è a dire quanto me ne struggessi in silenzio.

      Frattanto il tempo scorreva; le mie dovizie erano ite; Volumnio era volubile come il suo nome e si era allontanato da me. Egli pure aveva amato Cecilia e l'aveva chiesta in maritaggio ai suoi, che avevano accolta con giubilo l'offerta; ma Cecilia aveva ricusato, ed egli, credendomi cagione del rifiuto, me ne voleva un mal di morte. Così, percosso d'ogni parte dai fati, io andavo perdendo anche gli amici e mi trovavo solo nell'ampia Roma; non ero nulla; non potevo esser nulla.

      La necessità, la urgenza dei casi miei, mi diede l'ardimento. Fui come la lucerna che, presso a mancare, dà l'ultimo guizzo. Narrai a Cecilia del mio immenso affetto per lei, come l'avessi amata lunga pezza tacendo; come alla perfine più non sapessi frenarmi, e la supplicai pietosamente dell'amor suo.

      Sulle prime ella non rispose parola; poi, fervidamente pregata, e alzando, giusta il suo costume, gli occhi al cielo, – «tu non puoi, mi disse ella, o Calisto, essere lo sposo mio. Da gran tempo io m'ho eletto il signore di tutta me stessa, e debbo serbargli la mia fede.»

      V

      Il cuore senza amore è come il mondo senza sole.

      Immaginate voi questo globo abbandonato dall'astro luminoso che gli riscalda le fonti della vita! Ne avete un breve esempio, un fugace concetto nella semplice durata di un'ecclissi solare. Solo che un'ora que' raggi, interrotti nel loro veloce cammino dalla intromissione di un corpo opaco, non giungano alla terra, impallidisce ogni cosa creata, il vento soffia impetuoso, il freddo e le tenebre v'investono e paiono dirvi che non siete più nulla, dov'essi regnano soli.

      Nè dissimilmente si oscurò l'animo mio, quando gli venne meno la speranza dell'amor di Cecilia. Rabbrividii come per gelo improvviso a quella risposta, che io pure avea preveduta e provocata, e dopo una breve pausa, in cui ebbi a sentire tutte le più crudeli trafitture che esacerbassero mai il petto di un uomo:

      – Addio, Cecilia – esclamai. – Non ci vedremo mai più.

      – Perchè? – mi disse ella, guardandomi con mesta cura nel viso. – Non toccherai più la cetra? Il mio cembalo non ripeterà più le tue melodie?

      – No! mi sento morire; il solo vederti mi duole; il rimanerti accanto mi sarebbe un supplizio dell'Erebo. —

      Ella chinò il capo e rimase inerte, con le mani prosciolte sulle ginocchia. Io mi alzai e, salutandola con un gesto disperato, varcai rapidamente quella soglia, per la quale io non dovevo tornare più mai.

      Mi ridussi a casa e visitai il mio scrigno. Gli avanzi delle mie ricchezze erano là dentro; diecimila sesterzi, un nulla per le consuetudini del mio vivere in Roma. Congedai i parassiti; mandai liberi i servi, e al più fedele donai, insieme alla libertà, una parte del mio oro.

      Allora mi vidi solo, deserto d'ogni gioia, d'ogni speranza nella vita, e non piansi. Smemorato, quasi ebbro, errai molti giorni per la città, non vedendo, non riconoscendo nessuno. Due mesi dopo, ero soldato, e partivo, con la legione a cui m'ero scritto, alla volta dell'estrema Germania, dove la guerra riardeva, tra l'impero e i popoli barbari. Colà, dimenticate le sontuose cene e le profumate dolcezze del mio cielo, nelle stragi che le aquile nostre seminavano sul loro cammino, nei tripudii e nelle gioie bestiali del campo, giunsi a tale da non riconoscere, in breve corso di tempo, me stesso.

      Talvolta, a dir vero, mi assaliva amaro il ricordo di avere avuto amici e di avere amato; ma erano sprazzi di luce, brevi e fugaci come i lampi in un cielo ingombro di nubi caliginose, e la mia anima tornava ad errare inconscia nel buio.

      La Parca mi rispettò, siccome un capo sacro alle Erinni. E certo alcun che di fatale ebbe ad esservi nel richiamo della legione, ov'io combattevo, a Roma. Tornare a Roma era per me una sciagura, tanto più grave in quanto che io la sentivo cadermi addosso e non potevo definirla, come avviene di pericoli ignoti che ci minacciano in sogno. E non era il pensiero di trovarmi soldato umile colà dove ero stato ricco e spensierato cavaliere, che mi pungesse; nè lo amor di Cecilia, che si era come assopito nel profondo del cuore e quasi dimenticato. Tremavo, e non sapevo il perchè.

      Quando giunsi a Roma, dopo due anni di assenza, nessuno mi riconosceva più. D'altra parte, le mie nuove consuetudini non mi conducevano mai agli antichi ritrovi; io vivevo, per così dire, in una nuova Roma, per lo innanzi a me sconosciuta. Seppi di Volumnio che era tribuno nelle legioni di Tracia; di Cecilia non sapevo, nè amavo chiedere; solo il caso mi fece un giorno conoscere che da un anno ella era andata a nozze, e che l'avventuroso consorte aveva nome Valeriano.

      Per Giove! credetti morirne, quel giorno. Tutte le mie ricordanze si svegliarono ad un

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